La guerra del partigiano Milton

Freddo a volte. Ma poi fango. E sentieri scoscesi, salite impervie e discese insidiose. Con questa rabbia che ti morde il cervello, questa passione che non ti riscalda il cuore ma ti mangia i pensieri e si digerisce la ragione.
E quante sigarette che si spezzano, trafitte dalla pioggia o fragili nelle cadute nel fango, anche se sono di marca inglese, una rarità in questi tempi bui e dannati, che dureranno ancora poco, ma quanto basta a solcare divisioni e a inondare di sangue questa terra sì generosa, ma aspra e nuda. E segneranno la storia queste guerre, sappiatelo, fino ad oggi. E allora cantami, o  Beppe, l’armi e l’amore.

La pioggia era minutissima, quasi impercettibile sulla pelle, ma sotto di essa il fango della strada continuava a lievitare a vsita d’occhio” (edizione commentata, p. 53).
Eccoci ci siamo. E’ il 1944 più o meno, l’amletico ed anglofilo Milton, ex partigiano rosso ed ora badogliano, è in piena guerra, lì nelle Langhe piemontesi. Ma non sono i fascisti in pianura a rappresentare il nemico. E’ il fantasma affatto evanescente di un amore perduto che lo strazia e dilania e. Come si può fare a guarire questa ferita?
E non ci sarà umidità, moschetto o colpo di tosse che può arrestare quello che lui ha, quello che lui è, quello che lui vuole Verità forse, magari augurandosi che tutto fosse solo una grande bugia. Bisogna combattere e non conta quale battaglia sia. Anche se invece. Milton ha saputo, Fulvia ha tradito, anzi Fulvia non ha mantenuto e con Giorgio ha continuato. Fino a dove e fino a quando non si sa, forse fino adesso.
E gira voce che Giorgio l’abbiano beccato i neri e che Fulvia sia lontano, a Torino, o forse no, magari mero oggetto di piacere in qualche agorà dei gerarchi al potere. Non rimane che cercare Giorgio, costi quel che costi. Scendere in pianura ed affrontarlo da uomo a uomo. Basterà uno sguardo, un cenno con la mano e tutto finalmente sarebbe più chiaro, quasi luminoso in questo tetro paesaggio fustigato dalla pioggia.
E se Milton si fosse inventato tutto? E se qualcuno gli avesse solo ventilato una mera e friabile ipotesi? Sapete come va, è difficile dire la verità, figuriamoci in guerra. E peraltro questa è una guerra che non finirà qui, dura fino ai nostri giorni, voltatevi, il nemico è sempre alle spalle, insomma che fare?

…basta, basta, basta. Stavo male per non saper che fare, dove andare, cosa risolvere, domani. Ma ora so cosa farò domani. Ritorno alla casa di Fulvia, rivedo la donna, mi faccio ripetere tutto per filo e per segno. La guarderò tutto il tempo negli occhi, senza sbattere nemmeno una volta le palpebre. Dovrà ridirmi tutto, e aggiungere anche quello che non mi disse l’altra volta” (p. 116)
Fulvia non c’è.
Se Milton avesse frainteso, avesse ceduto alle languide ed insidiose effusioni della paranoia amorosa?
Chi lo sa. C’è un odio li d’intorno. E morti, fucilazioni, tradimenti ed imboscate. E piove. E la nebbia delle Langhe corre a coprire piccole e grandi tragedie, per nascondere al mondo gll invisibili ma solidi mattoni che costruiscono i muri di una tragedia a carattere planetario.
Milton deve sapere.
Milton non si può arrestare.
E non c’è guerra che tenga, plotone armato che intimorisca, rifugio partigiano che ingombri, disciplina pseudo militare che freni.
E a farti compagnia solo solitudine, rabbia, angoscioso dubbio e paura di non riuscire a sapere.

Scritto e riscritto senza essere portato a compimento, con veemenza ed efferati ripensamenti tra il 1961 e il 1963 da Giuseppe Fenoglio, poco prima dunque della sua morte, pubblicato postumo, è probabilmente uno dei più cruenti e coinvolgenti romanzi, almeno tra quelli più noti, che cercano di dipingere la cosiddetta epopea partigiana nelle terre del nord senza sprofondare nella melma della retorica e della celebrazione, ponendo al centro il dramma passionale di un solo uomo sullo sfondo di una natura ostile e non cedendo un millimetro al facile sillogismo che troppo spesso permeò la narrativa cosidetta resistenziale e poi successivamente quella definita neorealista, ma anzi dando spazio e nutrimento a riflessioni di carattere più ampio. Anche la lingua e lo stile di Fenoglio risultano di uno spessore e di una interna forza, di una calamitante pregnanza estetica ancor oggi degna di attenzione ed eventualmente celebrazione, lingua maturata anche con la lettura vorace, quasi furiosa, di scrittori angloamericani.
Una storia che ti si avvinghia dentro, con uno stile che risente della cultura anglofona di Fenoglio, con frasi rapide e secche e gesti di sapore hemingwayano che tuttavia non arrivano mai ad essere una parodia o una dissonante citazione d’autore.

Un gelo ed un disagio che via via si fanno forti, chiari, quasi limpidi anche tra i meandri del dubbio, in un atmosfera dove crudeltà, speranza,sangue e fame affrescano a tinte livide quell’’oscuro oggetto del desiderio che gli uomini chiamano guerra. Un retrogusto amaro, di tradimento e di insofferenza, nei confronti della guerra, vista qui come un continuo uccidere alle spalle, gente in fuga o già arresa, di qualunque colore sia la bandiera che sventola,  un tono malinconico ma vibrante, così lontano dal moralisteggiare a vuoto, con un approccio esistenzialista ed umano e non retoricamente politico a fatti di sangue che forse solo Calvino, con “Il sentiero dei nidi di ragno”, aveva messo in opera. Non a caso i due ebbero una fitta e fruttuosa corrispondenza prima e durante la scrittura del romanzo.

Frutto di tre stesure, per la gioia di filologi e studiosi (prova ne sia l’introduzione mastodontica a questa edizione commentata, di ben 60 pagine a fronte delle 129 del romanzo stesso e a cura di Gabriele Pedullà), scritto nel periodo in cui l’autore era al centro di una diatriba contrattuale fra Garzanti ed Einaudi, questo romanzo sa di non sapere e mostra quello come l’amore possa far germinare una forza sovrumana, quando si installa e comincia a scavare nel cuore. Un amore che forse non è stato mai detto o amato e dunque il destino farà la sua corsa. Fino a quando come Milton, in quel finale di romanzo (“Poi gli si parò davanti un bosco e Milton vi puntò dritto. Come entrò sotto gli alberi, questi parvero serrare e far muro e a un metro da quel muro crollò” p. 129) che mai sapremo per certo se fosse effettivamente la conclusione voluta dall’autore, ci sdraieremo esausti  sul prato, rievocando sensazioni leopardiane ed immortali (“…Che se d’affetti/ Orba la vita, e di gentili errori, / È notte senza stelle a mezzo il verno, / Già del fato mortale a me bastante/ E conforto e vendetta è che su l’erba / Qui neghittoso immobile giacendo, /Il mar la terra e il ciel miro e sorrido” Giacomo Leopardi, “Aspasia”). A mirar le stelle e questo infinito cielo che, appunto, non finisce mai.

Beppe Fenoglio, Una questione privata, pp. LX-132, Einaudi, Torino 2006 [prima edizione 1963]

Baol70, vincitore di premi letterari per esordienti a livello nazionale, webwriter, con recensioni di film, libri, dischi sul sito Ciao.it, collabora con  www.lankelot.eu

Baol70

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