“Le eroine cercatrici” sono le donne descritte da Dacia Maraini, donne che hanno preso in mano la loro vita e ribaltato la figura della fanciulla-vittima in attesa di essere salvata: «Nella mia infanzia ho letto molto – ha detto – ma l’assenza di protagoniste femminili mi lasciava perplessa. Per questo ho voluto raccontarle io». “Le eroine cercatrici”, però, è anche il titolo dell’incontro, tenutosi ieri sera all’Auditorium del monastero dei Benedettini e organizzato dal Comitato Pari Opportunità, in cui la Maraini – scrittrice italiana più famosa al mondo – ha ragionato sulla condizione delle donne di oggi, partendo dai personaggi dei suoi romanzi, per finire a parlare di se stessa: gli anni trascorsi in un campo di concentramento in Giappone, l’importanza del padre nella sua formazione culturale, l’adolescenza passata in Sicilia. Un lungo racconto alimentato dalle domande del pubblico, fino alla breve intervista concessa a Step1.
Negli anni Settanta, Lei si è impegnata nella lotta femminista. In quel periodo il femminismo ha ottenuto conquiste importanti, una ‘quasi parità’ tra i sessi. Oggi per cosa si lotta, quali sono le direzioni che il movimento deve prendere? La quasi parità l’abbiamo ottenuta solo sul piano civile, con diritti che le donne prima non avevano. Purtroppo è stato possibile cambiare le leggi ma resta difficile cambiare la mentalità. Ancora oggi viviamo in un mondo basato sulla misoginia, e questo continua a cerare molti problemi alla vita delle donne.
E per quanto riguarda il resto del mondo? Il femminismo non potrebbe prendere anche una diversa direzione geografica?
Sicuramente con la globalizzazione avremo sempre più a che fare con popoli e culture ancora molto arretrati rispetto ai diritti delle donne. E dovremo confrontarci con queste cose. Basta guardarci intorno, in quasi tutti i Paesi del Mediterraneo le leggi sono contrarie alle donne e la famiglia è costruita su base patriarcale, sull’autorità indiscussa del capofamiglia sui figli e sulla moglie. È una situazione che precede addirittura le conquiste che in Europa abbiamo ottenuto con la Rivoluzione Francese.
Parliamo di lettura. Lei ha dichiarato che è un amore contagioso, che passa dai genitori ai figli. La generazione che oggi si ritrova genitore è quella delle rivoluzioni sociali e culturali degli anni ’70, eppure il nostro paese è tra quelli dove si legge di meno. Come mai?
Leggere comporta una fatica di concentrazione che non tutti sono capaci o vogliono sostenere. Eppure si dice sempre che i giovani leggano poco ma questo non è vero. Certo, la percentuale di lettori forti in Italia è minore rispetto agli altri paesi europei, ma i ragazzi leggono comunque più degli adulti. Secondo le statistiche, la quantità di lettura tra la fascia giovane sta aumentando.
Però è diminuita la qualità, le librerie sono affollate di libri per teenager senza alcun valore letterario…
Sì è vero, ma il solo fatto che si legga di più è già una cosa importante. Un secolo fa si leggeva di meno anche perché c’era più analfabetismo. Purtroppo i lettori sono sempre una minoranza, la cultura stessa è qualcosa che riguarda sempre una minoranza.
Questa cosa non è valida solo per i libri, ma anche per il teatro. Per lei è sempre stato un luogo di incontro civile, addirittura ha fatto teatro di strada, a sfondo sociale. Oggi, invece, il teatro sembra diventato qualcosa di elitario, un posto dove gli intellettuali parlano a se stessi. Pensa che sia possibile riportarlo alla sua funzione divulgativa?
Il teatro ufficiale è e resterà elitario. Si possono pensare altre forme di teatro, però. Io stessa faccio uno spettacolo sulla violenza contro le donne che viene rappresentato nelle scuole e nelle università, nei luoghi non ufficialmente teatrali e che parla di cose concrete, molto dolenti, che toccano da vicino le persone. Per fortuna c’è ancora un teatro che si interessa alla realtà. Il problema è che si trova nelle cantine piuttosto che nei grandi teatri.
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