La cultura contro “l’immoralità del potere”

Pino Caruso protagonista d’eccezione, insieme al direttore dello Stabile di Catania Giuseppe Dipasquale, del quarto appuntamento di “DoppiaScena”, ciclo di incontri con i protagonisti del palcoscenico organizzato in collaborazione dal Teatro Stabile di Catania e dalla Feltrinelli. L’occasione è nata dalla messa in scena a Catania dello spettacolo “Mi chiamo Antonino Calderone” sulle confessioni del boss catanese, tratto dal libro-documentario Gli uomini del disonore di Pino Arlacchi, per la trascrizione drammaturgica di Dacia Maraini, in programma al Musco fino al 28 aprile. L’incontro, che si è tenuto nella libreria La Feltrinelli di via Etnea, è cominciato con un lieve ritardo, accompagnato da una calorosa attesa del pubblico per il grande attore palermitano.

Semplici ma profondamente vere, le parole di Pino Caruso raggiungono immediatamente il nocciolo della questione: “Antonino Calderone ha rappresentato una mafia che si è storicizzata. Ma un evento storicizzabile è qualcosa che può considerarsi ormai concluso. In venticinque anni si è storicizzato il concetto di mafia, ma anche la perdita di centinaia di vittime”.
Secondo Caruso, la cultura del tempo di Calderone proponeva due modelli distinti: uno era quello del carabiniere, dello “sbirro”; dall’altra parte, invece, stava il mafioso, misterioso ed inarrivabile. “E Calderone sbaglia strada perché la società gli propone il modello del delinquente e non quello del carabiniere”.

L’attore siciliano, manifestando sin dal principio la volontà di dare all’incontro una forma quanto più simile a un dibattito, fornisce ai presenti parecchi spunti di riflessione: “La mafia quando ha il potere, non ha bisogno di grandi gesti – commenta. “La gente lo sapeva che ‘u pisci fete ra testa’. L’immoralità era al potere. E che l’immoralità non sia al potere lo lascio dire a voi”. Una signora tra i presenti, coglie la palla al balzo e, dando il via agli interventi, chiede la parola manifestando una certa collera nei confronti della società, che oggi più che mai appare priva di una coscienza anti-mafia: “Se si sparge la voce che sono onesto sono rovinato: nessuno si fiderà più di me!”.

Caruso si riallaccia immediatamente all’intervento, sottoponendo elegantemente al pubblico una serie di provocazioni semplici e dirette e non facendosi mancare qualche applauso acclamatorio. “Il problema – sottolinea – è che se non ci sentiamo protetti, non abbiamo il coraggio di reagire. Dobbiamo imparare a votare, perché ci rassegniamo troppo spesso a scegliere sempre il ‘meglio del peggio’, o a non scegliere affatto. Quando la sfiducia è tanta si cade nel qualunquismo. Tutti i soprusi che noi abbiamo patito hanno la complicità di noi stessi”.

La mafia, secondo l’attore palermitano, fa parte dello spirito umano, sta nell’arroganza di molti di noi, e anche nell’atteggiamento di alcuni politici oggi. “Il cambiamento deve partire da noi – afferma Caruso, e si chiede: “Come dobbiamo difenderci? L’unica arma che abbiamo adesso è la cultura. Leggere è vivere, la sostanza del mondo sono i pensieri”. E continua: “E’ l’esercizio del pensare che ci dà le risorse umane per reagire. Dobbiamo capire cosa ci sta accadendo attraverso l’osservazione di quanto è accaduto in passato. In ‘Mi chiamo Antonino Calderone’, da catanesi, vedrete come i nomi, i fatti, i luoghi siano riconoscibili e vicini”.

L’incontro si conclude con queste raccomandazioni e con un pubblico che sembra più consapevole di come cogliere il messaggio che sta dietro alle confessioni del boss Calderone e, forse, più desideroso di invertire il ciclo vizioso dell’immobilismo. E del disfattismo.

Valeria Anfuso

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