«La gente parla ma non sa niente». Non sa, per esempio, i sogni di gloria che Giuseppe Graviano, boss della famiglia di Brancaccio, aveva per Palermo. Anzi, per la Sicilia tutta. «Poi mi hanno arrestato e sono finite tutte cose». È il 22 gennaio 2016 quando gli investigatori intercettano il suo sfogo col compagno di passeggiata durante l’ora d’aria, il camorrista Umberto Adinolfi, detenuto insieme a lui nel carcere milanese di Opera. Un secondo sacco di Palermo, che avrebbero spacciato per modernità e sviluppo, obbedienti apparentemente a un unico comandamento: quello del turismo. «Monte Grifone mai lo hai sentito dire? E Maredolce, u castello da Favara? – chiede al compagno – Si stavano facendo tutte queste cose, ti dico un sogno stava diventando».
«Una cosa in grande proprio», commenta a un certo punto Adinolfi. Il cuore di tutta questa grandezza sarebbe stata proprio la sua Brancaccio. Sua e di quel prete che tanto dava fastidio a Cosa nostra e che nel ’93 viene ucciso davanti al portone di casa, a piazza Anita Garibaldi. Quel prete, che il quartiere voleva salvarlo davvero e che per questo lui fa uccidere, era padre Pino Puglisi. «Brancaccio prende tutto, buona parte del golfo di Palermo fino a Villabate. Una strada doveva attraversare il mare – racconta – Il 30 per cento di tutto quello che si costruisce deve essere turistico, pensa a tutti gli appartamenti sul lungomare, è stato costruito anche l’Hotel San Paolo, mai l’hai sentito dire?». Un luogo moderno, completo di ogni confort e pieno di stimoli: «Potevi raggiungere qualsiasi isola in pochi minuti oppure uscire con il peschereccio, mangiare a mare, pescare, questo è».
Proprio l’hotel avrebbe dovuto essere un altro punto di snodo fondamentale per il business che avevano in mente Graviano e i suoi. «Una meraviglia proprio sul lungomare: ha qualche 450 stanze più suite, accanto sono nati seicento appartamenti, però staccati dall’hotel, tutti in questo rione – spiega all’amico campano – Con un ristorante sulla terrazza da cui vedi fino a Mondello, la punta di Montepellegrino, fino a tutto Casteldaccia, Aspra, tutto il territorio, un sogno, tutto in vetrate, con un eliporto e il porticciolo sotto proprio l’hotel, i turisti potevano andare in qualche isola o con la barca potevano stare tre, quattro giorni a Lampedusa». In alternativa alla barca, il boss aveva pensato anche a dei pullman per le gite dei turisti. E la maggiore attrattiva, escursioni a parte, sarebbe stata la nostra spiaggia.
«Doveva essere tutta pulita, c’erano i nomadi e gli zingari, ma l’idea era di sbarazzari tutti cosi e stavano cominciando a crescere, le barche tipo Rimini», dice, sognando ad occhi aperti. «Anche se molte cose da noi non si possono fare perché c’è…come si chiama, le Belle arti? L’Assessorato artistico? La Soprintendenza? Insomma, quello». Sogni non proprio di legalità, quindi. Ed ecco che per realizzare il nuovo volto di Palermo nasce un partito ad hoc: Sicilia libera. «L’ho fondato io nel villaggio Euromare, con tutte le persone in televisione…la Sicilia doveva essere autonoma in tutto».
«Una specie di Stato a sé», lo incalza ancora Adinolfi, che lo ascolta con interesse. Le cose, però, non vanno secondo i piani. Graviano il 27 gennaio 1994 viene arrestato e il partito si fonde con Forza Italia, che nel progetto iniziale messo a punto dal boss doveva solo collaborare e avere un ruolo marginale. «Ti fazzu abbidiri cosa doveva sfornare la Sicilia, come diventava un paradiso – insiste – no solo fiscale, addivintava un paradiso su tutto, no tutti questi imprenditori e queste cose, la gente sarebbe stata bene». Ma questo sogno di nome Sicilia, secondo lui, si sarebbe realizzato solo se l’isola si fosse staccata, ma «poi è successo quello che è successo».
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