La Consulta erode i poteri del Commissario dello Stato. Ma la storia è articolata…

CONTINUA A FARE DISCUTERE L’ORDINANZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE CHE RIDIMENSIONA I POTERI DEL COMMISSARIO DELLO STATO. IN QUESTO ARTICOLO, DEL PROF MASSIMO COSTA, SPIEGHIAMO PERCHE’ SI TRATTA DI UNA GRANDE VITTORIA PER LA SICILIA. NELL’ARTICOLO SOTTO, A FIRMA DI FRANCESCO GIORDANO, RIPERcORRIAMO LE PRINCIPALI TAPPE STORICHE DI QUESTA ISTITUZIONE IMPOSTA DA ROMA

La Corte Costituzionale erode i poteri del Commissario dello Stato in Sicilia: ma la storia è lunga ed articolata…

di Francesco Giordano

L’ordinanza della Corte Costituzionale del 5 maggio c.a. (qui il testo completo) relativa alla impugnativa che il Commissario dello Stato per la Regione Siciliana ha svolto nel dicembre 2013 contro la legge regionale poi pubblicata in GURS dal Governo Crocetta, è interessantissima per molte ragioni. Storicamente parlando, anche se il documento si muove perfettamente in punta di diritto, e diversamente non potrebbe essere, è un passo notevole per lo svuotamento ipso facto della funzione del Commissario, che da 68 anni incombe sulla autonomia, noi diciamo federale, della Sicilia.
Facciamo un po’ di revival storico. L’Isola nostra possiede il Parlamento più antico della terra, in funzione dal XII secolo mercè la volontà del Gran Conte Ruggero d’Altavilla, il biondo Normanno che liberò la Trinacria dalla sudditanza emirale mussulmana (seppure anche in quel periodo storico, specie nel secolo XI, con Giaf’ar, la Sicilia fosse già uno stato di fatto indipendente, anche per pura formalità prestava atto d’omaggio al Califfo d’Egitto), esaltato dal primo Re di Sicilia Ruggero II (mentre l’assise britannica entrava in esercizio, e con poteri limitati, qualche decennio dopo), e luminosamente risvegliato dagli stròmenti della modernità nel 1812 con la cosiddetta Costituzione “inglese”, che abolisce la feudalità ed il maggiorascato, dona la libertà di stampa e parzialmente di espressione, fino al 1816.

In quell’anno divenuto il fedigrafo Ferdinando, già IV di Napoli e III di Sicilia, I Re “delle Due Sicilie”, abolisce l’indipendenza siciliana, sopprime il Parlamento, rinnega la Costituzione “imposta” dagli illuminati nobili siciliani e da Lord Bentinck fiduciario di S.M.Britannica in Sicilia, e accorpa l’isola ai domini di là del Faro. Egli dimenticava il benvolere dei siciliani che lo accolsero nel 1798 protetto da Nelson mentre “fuìva” da Napoli in rivolta; ben più freddamente lo accoglievano nel 1806, nel secondo esilio, perchè tornò a imporre tasse per il mantenimento della sua Corte. Però ben sapendo della grandissima volontà indipendentistica dei siciliani, si affretta a nominare un Luogotenente per gli affari isolani, e così faranno i successori: tra questi sarà più noto il Marchese delle Favare, che appronterà alcune strade e rimane famoso per i possedimenti a Palermo e una bella dimora nel paese di Biancavilla, sull’Etna.

La figura del Luogotenente per gli Affari di Sicilia era un mero palliativo per le aspirazioni del popolo e dei borghesi e della nobiltà, che infatti insorsero sia nel 1820, che nella rivoluzione del 1837 (innalzando, per l’ultima volta nel XIX secolo, la bandiera giallorossa con la triscele, e accadde a Catania più che a Palermo) che in quella lunga un anno e quattro mesi, del 1848-49 (in tale occasione divenuto però il sentimento siciliano federale, il vessillo fu il tricolore con al centro la triscele). Giunto il “liberatore” Garibaldi e sconfitti i borboniani a Calatafimi nello storico maggio del 1860, l’ultimo Luogotenente della cadente dinastia, il vecchio Principe di Castelcicala, si dovette “umiliare” al barbuto e indomito guerriero in camicia rossa, su di un vascello inglese nella rada di Palermo (all’ombra della squadra e del compasso…). Garibaldi proseguiva per Napoli, i cosiddetto “plebisciti” (sulla cui validità e sostegno della nobiltà ad essi, ben scrisse il Tomasi di Lampedusa nel “Gattopardo”) sancivano l’Unità con l’Italia, ma subito dopo la visita di Vittorio Emanuele II a Palermo (dicembre 1860), il governo nazionale istituiva ex novo la Luogotenenza per gli affari siciliani.

Mordini, già prodittatore con Garibaldi, avrebbe voluto tenere i plebisciti per far risorgere il Parlamento dell’isola, ma Cavour si affrettava a impedirlo con l’annessione affrettata e senza cinghie di trasmissione locali: egli ben sapeva quale popolo la nuova Italia stava inglobando, se è vero che in una lettera a G.Carini dell’ottobre 1860, faceva mostra di promettere che “il Parlamento che accoglierà nel suo seno i deputati di tutte le popolazioni italiane, non disconoscerà certo i bisogni di esse…nè la Sicilia, la sola delle provincie italiane che abbia antiche tradizioni parlamentari, dovrebbe dimenticarlo…la Sicilia può fare assegnamento sul ministero onde promuovere l’adozione di un sistema di larghissimo discentramento amministrativo”.
Del quale “discentramento” però non si vide traccia, se non nella reistituzione della Luogotenenza, che durava tuttavia sino al febbraio 1862. Il governo di Torino aveva compreso che non si poteva più dare alla Sicilia il Parlamento, l’avrebbe perduta di nuovo, e una rivoluzione separatista il nascente stato unitario, fragilissimo, non l’avrebbe sopportata: dònde le repressioni culminate nella celeberrima rivolta del “sette e mezzo” a Palermo del 1866, e la ferocia del corpo militare, l’aumento delle tasse, la coscrizione obbligatoria (“megghiu porcu ca surdatu” si diceva, e si dice, in Sicilia, storicamente esente dalla leva: già nel XVI secolo solo le organizzazioni brigantesche potevano tutelare l’ordine all’interno dell’isola, come capirono benissimo i magnifici Vicerè degli Absburgo…), la vendita indiscriminata in seguito alla legge Siccardi, dell’immenso patrimonio ecclesiastico, che in Sicilia gettava sul lastrico migliaia di persone che vivevano del sostentamento e attorno alle proprietà del clero (l’Abate del monastero benedettino di Catania, poi Cardinale oggi Beato, Giuseppe Benedetto Dusmet, maledì i funzionari governativi che prendevano possesso dell'”arca sacra”, quel magniloquente complesso: e per chi ci crede, le stigmate durano ancora… era un sant’uomo, il panormita Vescovo di Catania che a piedi nudi saliva sull’Etna nel 1886 e fermava la lava al grido di “arrestati in nome di Sant’Agata!”, la protomartire; ebbe il contraltare laico in Mario Rapisardi, Poeta della Luce e amico dei più deboli, dei poveri).

Il governo unitario tornò a istituire un apposito funzionario per gli affari di Sicilia nel 1895, con Codronchi: lo appellò stavolta Commissario straordinario, e lo si ricorda tristamente perchè fu per ordine di un siciliano già garibaldino e repubblicano, Francesco Crispi di stirpe siculo-albanese, che la Sicilia subiva lo stato d’assedio, e molti innocenti morivano negli scontri, in seguito ai tumulti per fame e per la vergognosa emigrazione, sostenuti dai Fasci dei Lavoratori, capitanati da Giuseppe De Felice Giuffrida, figura notevole del nascente movimento socialista. Come si nota, in tempi di drammatiche crisi sociali rispunta la figura del fiduciario dello Stato nazionale.
Si giunge così all’ultimo conflitto mondiale e alla sconfitta italiana, con l’accupazione degli Alleati Anglo-Americani: l’Allied Military Government of Occupated Territory operò in Sicilia dal luglio 1943 al febbraio 1944, mese in cui l’Isola venne, con moltissime proteste da parte di Andrea Finocchiaro Aprile e degli indipendentisti siciliani, “riconsegnata” al governo nazionale italiano. Governatore dell’AMGOT era l’inglese Lord Rennel of Rodd, capo degli Affari Civili Charles Poletti, già governatore di Nuova York. Finocchiaro, da grande leader, aveva capito, e lo scrisse, che era meglio fossimo rimasti sotto l’amministrazione civile e militare Alleata. Da qui il movimento di annessione agli USA detto della “49° Stella”. Dal giorno in cui l’Italia tornava a “gestire” la Sicilia, poichè si conoscevano i sentimenti dei siciliani, impose il Commissario, allora (1944-1948) Alto Commissario per la Sicilia, dipoi e fino ad oggi Commissario dello Stato. Crediamo sia l’unica regione al mondo, la Sicilia, che ha uno Statuto di fatto federale, quello del 15 maggio 1946 frutto dalla guerra civile allora in atto fra governo italiano (monarchico, non repubblicano) e popolo siciliano, e un Commissario con pieni poteri, anche quello di sciogliere il Parlamento. Questi i fatti: se li si osserva solamente, una situazione che dire paradossale è poco. Non che la figura del Commissario sia stata sempre negativa. E’, politicamente ma anche filosoficamente se si vuole, lo stesso concetto di “commissariamento” della Sicilia, da settanta anni circa, che è fortemente opinabile.
Ciò che, tornando al discorso iniziale, l’ordinanza della Corte Costituzionale pubblicata il 7 maggio u.s. sta iniziando a fare: e che a presiederla vi sia il siciliano Gaetano Silvestri, già Magnifico Rettore dell’Università di Messina, ed a relatore sia il siciliano Sergio Mattarella, crediamo non sia un caso. Come il consiglio, tra cui spiccano i nomi dei noti giuristi Sabino Cassese, Giuseppe Tesauro, Giuseppe Frigo: evidentemente ci si sta rendendo conto che, mutatis mutandis, la Storia cambia e se non si interviene “donde si puote ciò che si vuole”, il fiume degli eventi imporrà comunque la suprema volontà
Non ci si illuda, da sicilianisti e federalisti tuttavolta, che l’ordinanza della Corte Costituzionale rimescoli le carte, ovvero abolisca ex nunc la figura del Commissario dello Stato: esso è previsto dalla Costituzione italiana di cui lo Statuto è parte integrante, e la Corte non può fare altro che de facto svuotarne i poteri, lasciandone il simulacro, in attesa di tempi migliori.

Ma con molto tatto, come essa scrive, per ora, “sospendendo” il giudizio in attesa di successiva ordinanza. Si rileggano i passaggi del testo in cui si ribadisce, e altro non potrebbe fare, l’inquadramento unitario dello Stato specie in riferimento alla soppressa di fatto, non giuridicamente, Alta Corte per la Sicilia, che è poi il motivo dirimente per cui (ora, certo, ma la giurisdizione, chi è malizioso direbbe la politica attuale, ha i suoi tempi: si pensi alla sentenza che dichiara illegittima la legge del 2006 sulle preferenze nelle votazioni nazionali, pubblicata quest’anno, per rendersi conto della cronologia) la Corte “solleva quesyione di legittimità” sul potere che il Commissario dello Stato ha in Sicilia, preventivamente, di cassàre le leggi regionali: è questo il motivo del documento, e si vuole che tale potere venga abolito e sia successivo. Ma antropologicamente esso va oltre, e certo se non discute la figura del Commissario in sè, la erode dall’interno in modo sostanziale.

Ecco i passaggi importanti:
con la sentenza n. 6 del 1970, sono stati dichiarati costituzionalmente illegittimi gli artt. 26 e 27 dello statuto della Regione siciliana, relativamente alla residua competenza penale dell’Alta Corte circa i reati del Presidente e degli Assessori regionali – peraltro, sino a quel momento, mai concretamente esplicatasi – affermando, tra l’altro, che «contrastano con la Costituzione, nel loro insieme, tutte le norme relative all’Alta Corte, perché in uno Stato unitario, anche se articolantesi in un largo pluralismo di autonomie (art. 5 della Costituzione), il principio della unità della giurisdizione costituzionale non può tollerare deroghe di sorta»;
che, nella decisione da ultimo richiamata, questa Corte ha tra l’altro affermato che detto potere di impugnativa «se si poteva ben giustificare nella fase di primo impianto dell’ordinamento siciliano, quando, in assenza di un sistema di garanzie definitivamente fissate in sede costituzionale, si tendeva ad individuare nel Commissario il garante imparziale del “patto di autonomia” tra l’ordinamento siciliano e l’ordinamento statale – non si giustifica certamente più nell’ambito di un ordinamento costituzionale quale quello attuale, dove il quadro dei rapporti tra Stato e Regioni, ordinarie e speciali, risulta completamente delineato e regolato nonché garantito attraverso un sistema di giustizia costituzionale ispirato a principi unitari»;
che il regime relativo alle leggi siciliane presentava, peraltro, alcuni spazi di maggiore autonomia, non essendo previsto il rinvio all’organo legislativo regionale per un secondo esame ed essendovi, per il Presidente della Regione, la possibilità di promulgare le leggi decorsi trenta giorni dalla loro impugnazione;
che la condizione del controllo delle leggi delle Regioni ad autonomia speciale è mutata, a seguito dell’entrata in vigore del nuovo Titolo V della Parte seconda della Costituzione, per effetto dell’art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), il quale prevede che «Sino all’adeguamento dei rispettivi statuti, le disposizioni della presente legge costituzionale si applicano anche alle Regioni a statuto speciale ed alle province autonome di Trento e di Bolzano per le parti in cui prevedono forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite»;
che, invero, alla stregua dell’indicata giurisprudenza della Corte costituzionale sul controllo di costituzionalità delle leggi delle Regioni a statuto speciale, la «soppressione del meccanismo di controllo preventivo» si traduce comunque in «un ampliamento delle garanzie di autonomia», realizzandone una forma più ampia;
solleva, disponendone la trattazione innanzi a sé, questione di legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 127 della Costituzione e all’art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), dell’art. 31, comma 2, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), limitatamente alle parole
«Ferma restando la particolare forma di controllo delle leggi prevista dallo statuto speciale della Regione siciliana»; 2) sospende il presente giudizio fino alla definizione della questione di legittimità costituzionale di cui sopra;
La Sicilia sarà dunque, presto o tardi, liberata dalla figura, o meglio dai poteri grandi, del Commissario dello Stato, la cui genesi storica più sopra delineammo? E’ una conquista per l’Autonomia dell’Isola in senso federale, o sarà un piccolo segno di forma mentre nei fatti il Governo nazionale avrà più controllo sul Parlamento siciliano, di cui in ogni caso non sta mettendo in discussione, almeno fino ad oggi -seppure abbia tentato- le quasi millenarie prerogative? Il tempo darà la risposta.
Per parte nostra, se evangelicamente parlando il Maestro in Israele Gesù bar Joseph, insegnava che “dai frutti li riconoscerete”, da convinti “innamorati”, in senso storico filosofico e antropologico, della istituzione monarchica (qui intesa in senso onnicomprensivo: oggi chi incarna in modo perfetto tale ruolo è Sua Maestà Elisabetta II del Regno Unito), non ci illudiamo più di tanto che la Repubblica Italiana, pure rispettata e onorata, possa compiere gesti generosi verso l’Isola Trinakìa: perchè essa nacque, purtroppo per lei, luetica. Nessuno dimentichi che il fatale 10 giugno del 1946 la Suprema Corte di Cassazione sedente in Roma, presidente Pagano, un galantuomo di stirpe siciliana, comunicò solamente il risultato del referendum monarchia-repubblica (che fu storicamente una truffa, come è oramai acclarato dalla storiografia e già allora si sapeva perfettamente), rifiutandosi di proclamare il nuovo status istituzionale, mettendo così in forte imbarazzo De Gasperi, che la notte tra il 12 e il 13 fece il primo “colpo di stato” del dopoguerra, attribuendosi poteri presidenziali mentre c’era il Re al Quirinale, contro la legge.

E il 18 giugno, da cinque giorni partito il Sovrano (che lasciava a villa Savoia i piccoli mutilati di guerra da lui ospitati, dato che nessuno vi provvedeva, tra le lacrime…), la Cassazione, coartata, si pronunziava sui ricorsi, ma nuovamente si rifiutava di proclamare la repubblica, che era sbandierata con un comunicato del governo. La Gazzetta Ufficiale dichiarò a luglio 1946 che De Gasperi deteneva i poteri presidenziali dal 18 giugno, cedendoli a De Nicola, sancendo così il vulnus di legalità denunziato da Umberto II all’atto dell’esilio, con il celebre proclama in cui scrisse che “confidava” nella storica imparzialità della Magistratura italiana. La quale non proclamò mai la repubblica, fu il governo a farlo. E se fin dall’inizio è andata così, non meravigliamoci poi di ciò che venne, e verrà, dopo.
Francesco Giordano

Francesco Giordano

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