La storia del Lisca Bianca dei coniugi Albeggiani che vive ancora

L’AVVENTURA DUE DUE SICILIANI – SERGIO E LICIA – CHE GIRAVANO IL MONDO SOLCANDO TUTTI I MARI RIVIVE IN UN GRANDE PROGETTO DI RECUPERO DEI GIOVANI. RIPERCORRIAMO UN SOGNO DI LIBERTA’ DIVENTATO REALTA’

di Cettina Vivirito

“Nessuno lo vide sbarcare nella notte unanime.”

(Le rovine circolari, J.L.Borges)

L’odissea degli Albeggiani ha affascinato più di una generazione di velisti, e più in generale tutti coloro che al mare non chiedono nulla, che amano l’immensità dei suoi orizzonti e le sue evocazioni di esotiche lontananze, che lo considerano semplicemente un grande spazio primordiale dove vivere col vento in faccia. Certe scelte radicali e mature costituiscono, per molti, un vero e proprio manuale del saper vivere; e sono non soltanto quelli che a cinquant’anni sotto il peso della stanchezza adbicano, ma per i molti sempre a metà strada fra desiderio e rinuncia, velleitarismo e rassegnazione, sogni di libertà e paura di non essere capaci di gestire quella stessa libertà. Più che di lezioni sui pericoli verso cui corriamo follemente, abbiamo bisogno di persone capaci di energie vitali il cui esempio ci indichi strade e possibilità diverse. (sopra, foto tratta da farevela.net)

Trent’anni fa, i coniugi Albeggiani, di Porticello (piccolo borgo marinaro di Palermo) decisero di vendere tutto e andare a vivere su una barca. Fanno costruire da maestranze locali un Carol Ketch del ’29, la chiamano Lisca Bianca, omaggio all’omonimo scoglio che si trova nei pressi dell’isola di Panarea, nelle Eolie, nonché a un famoso vino locale, che pure amano molto.

Il Ketch è una specie di mulo dei mari: scafo in legno, trentadue piedi di lunghezza, doppio albero, chiglia in ghisa e appena un metro e mezzo di pescaggio. Il progetto originale prende spunto dalla struttura di vecchi pescherecci norvegesi, ma a un certo punto viene riadattato per affrontare lunghe tratte nel Pacifico. Sergio e Licia Albeggiani decidono di partire per fare il giro del mondo con la loro barca.

La prima volta che vedono l’Oceano è il 1975; salpano con l’equipaggio al completo a fine luglio, diretti alle Canarie, ma si fermano allo Stretto di Gibilterra: “(…) Ricorderemo sempre le emozioni suscitate in noi da questo primo incontro con il mondo africano: i rossi tramonti e la grande quiete dell’incombente ombra della sera riecheggiante il lamentoso richiamo del muezzin – sulla banchina un arabo piccoletto e scuro in bianchissimo caffetano armeggia con una fumosa fornacella tutto intento alla preparazione di profumatissimi dolcini al miele e di forte tè alla menta – si leva da terra una brezza lieve che ci avvolge in un intenso sentore d’Africa fatto di spezie, datteri, sabbia, pelo di capra, cereali. (…) Sfrigola la padella di Lisca Bianca mentre Licia infarina i saragotti pescati in mattinata – una grande luna arancione, gonfia come una mongolfiera, si stacca a fatica dall’ombra seghettata dai palmizi e si libra, lentamente, nel cielo pieno di stelle (..).” (sopra, a destra, foto tratta da wikipedia). 

Dopo ritorni e ri-partenze, ri-sistemazione della barca, comincia un lunghissimo viaggio pieno d’imprevisti, muri d’onde e correnti nuove da capire al più presto. E’ il 1984 e i coniugi sessantenni, senza possibilità di collegamento alcuno, iniziano a navigare verso l’ignoto, in silenzi che emergono assordanti, affidandosi al vento. Ancora tre anni in mare e ventinovemilacentottanta miglia nautiche prima di tornare in patria, ma, come stregati dal viaggio e tutte le sue proprie accezioni, preparano un secondo giro del globo.

Il vento torna a soffiare più forte di prima. E’ il 1989 quando Sergio e Licia riprendono il largo, forti dell’esperienza precedente; ma la storia stavolta finisce nelle Canarie, a Las Palmas. Un malore uccide Sergio. Licia, sola, torna a Porticello e sola, continua a vivere in barca ancora due anni. Senza Sergio, il sogno è finito: Lisca viene trasportata in una rimessa, dove rimarrà per più di dieci anni, a un passo dal giorno della demolizione.

(sopra foto tratta da guida-viaggi.info)

“Cambiare è l’unica cosa per cui vale la pena vivere. Mai passare la vita seduti a una scrivania. Provoca ulcere e mal di cuore”, scriveva Bruce Chatwin. Cercava di confutare l’assunto di Pascal secondo il quale l’irrequietezza dell’uomo sta tutta nella sua incapacità di stare tranquillamente seduto nella propria stanzetta. Una coazione a vagare e una coazione a tornare – il ritorno offre una pienezza di senso che l’andata da sola non ha.

“Il ritorno è la risposta che troviamo alla nostra irrequietezza”, sosteneva. L’andare e il tornare come inspirare ed espirare, moti vitali per dare fiato alla vita, nell’attesa che si manifesti l’incanto di quell’attimo in cui le cose sembra stiano per dirci il loro segreto.

Questa ricerca, questa consapevolezza carica di tutti i problemi e gli interessi del nostro tempo, la dimensione normale e familiare che ha saputo mantenere vivi gli affetti, è ciò che ci rende vicini, come cari amici, i coniugi Albeggiani e il loro esempio di capacità di scelta radicale.

Non spirito d’avventura e ricerca di stimoli, ma approdo e decisione maturata di due persone che hanno saputo fare per tempo, con il giusto tempo, un attento vaglio tra vanità e valore, scoprendo di quanto poco abbisogni l’uomo per vivere contro un costume che impone un carico enorme di costose esigenze; comprendendo che ciò che vale ha un suo prezzo, che per loro, è valso il sacrificio. Una lezione di gioioso coraggio, di slancio per la vita quanto un atto di fede che ci commuove, che ci coinvolge nel loro lungo viaggio, che ci invita a festeggiare insieme a loro, il ritorno.

Chatwin diceva che anche gli aborigeni australiani, dopo aver errato tutto l’anno, tornavano a intervalli stagionali nei loro luoghi sacri per riprendere contatto con le radici ancestrali, fondate sul tempo del sogno. Un modello di vita arcaico, ma affine al nostro dell’età della globalizzazione: nomadi e spaesati, avremo sempre bisogno di un luogo che avvertiremo come la nostra casa e la nostra radice autentica.

Nell’aprile del 2013 Francesco Belvisi, un giovane yacht designer impegnato in un sopralluogo a Palermo per lavoro, nota la barca in stato di abbandono nella rimessa di Romagnolo e chiede informazioni a un amico: l’amico è il sociologo e mediatore penale Elio Lo Cascio, appassionato di vela, che conosce bene quella storia perché ha letto con entusiasmo Le isole lontane, il libro che pubblicarono i due velisti al rientro dal primo giro del mondo. Libro in cui Sergio Albeggiani conclude: “Le isole lontane esistono. Sono dentro di noi e non ce ne accorgiamo o, forse, ce ne dimentichiamo. Dimentichiamo di essere liberi”.

I due amici, Francesco ed Elio, decidono insieme di restaurare quella che oramai sembra il relitto di una navis aerea, coinvolgendo i giovani dei servizi sociali; la pratica della velaterapia è già in atto da tempo e i ragazzi a rischio hanno manifestato un certo interesse.

Contattata quindi la famiglia Albeggiani, nasce il progetto: in breve si crea il team di esperti e intorno a Lisca Bianca cresce una rete che coinvolge volontari, artigiani, associazioni importanti come l’Istituto Don Calabria, Apriti Cuore, la Lega Navale, il Comune di Palermo e l’Assessorato regionale al Turismo. La barca viene trasferita per il restauro in un cantiere a Sant’Onofrio (Trabia, Palermo), presso la comunità terapeutica per tossicodipendenti, gestita da don Calabria, in attesa della collaborazione dei giovani detenuti all’interno del Carcere Minorile di Palermo Malaspina.

Un caro amico di Lisca Bianca, che contribuisce attivamente al progetto di recupero e riutilizzazione a fini culturali e sociali della barca è Maurilio Catalano, noto pittore dell’avanguardia palermitana. Nella mostra allestita all’interno dell’Arsenale della Marina Regia di Palermo, lo scorso aprile, intitolata “Oltre il Mediterraneo”, Catalano ha raccolto 20 sue opere storiche e le ha dedicate a Lisca bianca, la barca degli Albeggiani, condividendone lo spirito di viaggiatori che ne ha sotteso l’impresa, dipingendone una particolare: liscabianca II.

Pittore dei viaggi, viaggiatore anch’esso e stanziale alla stregua di un autentico pescatore di cui ne possiede il volto e ne dipinge l’anima. I suoi sono contrasti decisi, solari monocromie su fondali subacquei, lampare, pesci, fiocine. L’arcano motivo ricorrente del mare, quel mare tutto siciliano dove il pesce grande mangia quello piccolo, in mezzo a mille piccoli segnali e rimandi ad antichi codici, forti, passionali, isolani. Dentro il grande spazio bianco e aereo dell’Arsenale quei suoi quadri sembravano letteralmente galleggiare in un blu noto, familiare, una sorta di rappresentazione di quei sogni che non abbiamo voluto vivere per intero.

La Soprintendenza del Mare, in linea con la visione di un “approccio sistematico alla cultura, alla tradizione e alla storia del rapporto tra l’uomo ed il mare”, ha condiviso l’iniziativa e deciso di raccontare la storia di Lisca Bianca, sostenendone il Progetto di restauro attraverso un costante supporto sinergico alle attività di co-progettazione.

Rimane da trovare l’equipaggio per quest’impresa, a cui è stato passato il testimone. Potremmo essere noi epici quotidiani, e d’altronde, ci si può imbarcare in molti modi, “(…) vedere di nuovo quel che si è già visto, vedere in primavera quel che si è visto in estate, vedere di giorno quel che si è visto di notte, con il sole dove la prima volta pioveva, vedere le messi verdi, il frutto maturo, la pietra che ha cambiato posto, l’ombra che non c’era. (…) ritornare sui passi già dati, per ripeterli, e per tracciarvi a fianco nuovi cammini (…) ricominciare il viaggio. Sempre.” (Saramago).

*Per seguire e contribuire al progetto visitare il sito www.liscabianca.com.

 

Redazione

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