LA CITTÀ INVISIBILE/ I fiori di Librino

Un monolite. Che si staglia nero contro il cielo accecante. Ci sono delle scritte e dei segni: frecce e nomi. Altrove sarebbero delle indicazioni. A Librino, invece, suonano come un monito, un avvertimento: presto ti perderai. A Librino: dove i cartelli stradali sono centri di realtà moltiplicate, sparsi per questo luogo che un centro non ce l’ha. Il viaggio inizia da qui, attraverso queste vie che sono bracci centrifughi e sembrano non congiungersi mai con luoghi conosciuti. Una passeggiata può trasformarsi in una sfida al destino: poche strisce pedonali, curve con sensi e controsensi che sfidano la logica. Strade fatte non per fermarsi, ma per correre via. A volte anche troppo: sono tante le vittime di incidenti di cui rimane il ricordo a margine di una carreggiata. Ed i fiori sono sempre freschissimi, anche sotto questo sole di tarda estate.

Convergono nel nulla, le strade di Librino: e allora si può solo tornare indietro, ripetendo un cammino circolare tra blocchi di cemento, la cui imperturbabilità è minata da macchie colorate di panni stesi, che ne rivelano la vita interiore. Il quartiere è questo: cemento e indicazioni. Alcune sbiadite dal tempo, come la memoria che le sostiene: su un ponte, poco più in là, un cartello giallo stinto informa sulla costruzione del primo tronco dell’Asse Attrezzato della città di Catania. Costo £ 40.213.256.000, anno di consegna 1994. Hanno appena ripreso i lavori. Altre indicazioni, altre insegne raccontano di un tentativo di quotidianità. Di vita, persino: quelle di un panificio, o un noleggio video, allontanano per un momento la sensazione di trovarsi in  un non-luogo. Ma lo spazio è troppo grande, e la poca gente che si incontra sembra guardarti da un continente alla deriva.

Spingendosi oltre, e solo dopo aver percorso tanta strada da perdere il senso dell’orientamento, si raggiunge viale Moncada: la periferia della periferia, uno dei punti più estremi del quartiere. Sembra davvero di essere dall’altra parte di un buco nero. Non un filo d’erba, solo sterpaglie e rifiuti. I palazzi, erosi dall’incuria, sono rovine senza nemmeno la dignità di reperti storici. Gli unici fiori che si vedono sono quelli che ricordano Luigi, 14 anni, precipitato nel vuoto dopo una corsa su un’auto rubata. Poi, finalmente, dei bambini che giocano, i primi che incontro. Sulla porta sempre aperta c’è una scritta in rosso: è il centro Iqbal Masih, oasi nascosta nel chiaroscuro di questi titani di cemento. Il centro, occupato abusivamente, è gestito da dei ragazzi: il Comune ha tentato più volte, invano, di cacciarli. Danno ai bambini uno spazio per giocare, fanno doposcuola, mettono su rappresentazioni con i ragazzi della zona. Piero è uno di quelli che il centro l’ha visto nascere. Non abita a Librino, ma oramai vi appartiene.

Sanno di essere soli, non hanno un progetto definito perché qui si vive giorno per giorno. L’importante è fare incontrare le persone, instaurare un «dialogo sociale», come lo chiama Piero. Le persone sono come i palazzi: si guardano, ma è come se ci fosse l’abisso tra di loro, non riescono a sentirsi una comunità. Qui tutto è fatto per separare: e in questo vuoto attecchisce lo spaccio, la delinquenza. I consumatori, invece, vengono da fuori, perché chi è di qui considera fare uso di cocaina o eroina moralmente riprovevole, «da tossici».

Si avvicina una signora col grembiule, che tira fuori quello che qui è costretta ad ingoiare. «‘Sti cunnuti. Di notte spengono i lampioni per fare i loro comodi, le sembra giusto questo? Qua fanno i guappi, ma fuori di qui non  sanno neanche parlare». È difficile, per la gente onesta, vivere in questa miseria. Tacere, quando si vorrebbe gridare. Suo nipote ha otto anni, una gran voglia di studiare e l’unico pensiero della nonna è tenerlo lontano dalla strada. Darebbe tutto per lui, ma quello che ci vorrebbe – delle possibilità, un ambiente diverso – è proprio quello che non ha.

C’era una proposta, racconta Piero, che era partita dal quartiere anni fa: ristrutturare le masserie sparse per questo ex-borgo rurale e affittarle a degli artigiani a condizioni favorevoli. Questi, in cambio, avrebbero dovuto assumere dei ragazzini della zona come apprendisti. Proposta mai attuata, ovviamente. E al Comune qualcuno si permette ancora di definire Librino un quartiere dormitorio. Poi c’è il teatro, a due passi da qua. Detiene il record di inaugurazioni. Mai usato. Persino una cosa semplice come la disinfestazione delle strade sembra un’impresa ciclopica. «D’estate in queste sterpaglie ci sono zecche grosse così, meriterebbero di essere studiate», scherza Piero. Chi abita qui, in genere, spera di non rimanerci per sempre: il mantenimento della cosa pubblica non interessa a nessuno.

Pure, nonostante tutto, da queste parti si continua a promettere. Per terra ci sono ancora volantini di candidati; abbarbicati sui muri i volti di chi cerca di rassicurarci sul nostro avvenire. «Perché il futuro ti appartenga»: basta guardarsi in giro perché queste parole suonino come proposte oscene, che lasciano solo un’alcova vuota il mattino dopo. Chi potrebbe biasimarli, del resto? Per molti di loro questa rimarrà la loro prima ed unica volta di passaggio a Librino. Qualcuno, in realtà, ha provato a compiere il miracolo. E’ accaduto qualche tempo fa, in Viale Bummacaro. Di sera, le tenebre ricoprivano l’intera via e neanche gli spiriti si azzardavano ad uscire fuori. Finché uno dei candidati al Consiglio di quartiere disse: «E sia la luce». Sembrava Natale, la gente uscì in strada per festeggiare l’evento e il candidato: Colui che finalmente aveva portato l’illuminazione, assicurandosi l’eterna gratitudine dell’intera via. Peccato che l’Enel se ne sia accorta poco tempo dopo, e che abbia provveduto a staccare tutti i lampioni abusivi dalla rete elettrica. E le tenebre, all’improvviso, sono ritornate.

La strada risale per viale Grimaldi. Una rotatoria segna l’inizio di tre mondi: Librino, Villaggio S. Agata e S. Giorgio. Ma a San Giorgio lo spazio cambia: se viale Grimaldi è ancora geneticamente simile a Librino, qui le persone vivono diversamente. Case e casupole si sviluppano l’una vicina all’altra. Accanto a nuove strade, rotatorie e ponti, si apre un dedalo di viuzze, che però possiedono un ordine ed una compattezza che a Librino sono stati negati. Si capisce che qui intorno, una volta, era tutta campagna. Lo dimostrano i resti di masserie e di vigneti. Più si sale, più prosperano piccole villette, alcune con i laterizi scoperti, altre con graziosi giardini, pergolati un po’ pretenziosi o enormi putti di gesso. Le persone si parlano da balcone a balcone. Forse è questa dimensione ancora umana, personale e colorata, che fa sì che persino qui Librino sia considerata un gradino più in basso nella scala dei quartieri catanesi. Persino qui, a S. Giorgio, pensare di fare una passeggiata da soli a Librino viene reputato un gesto arrischiato.

Ma a Catania c’è chi Librino cerca di guardarla con occhi diversi. In piazza Stesicoro, in mezzo ai rumori assordanti, troppo in alto perché occhi frettolosi li possano vedere, l’associazione Fiumara d’Arte dedica a questa periferia i suoi messaggi d’amore sempre diversi. «Librino è poesia», «Amo Librino». Chi potrebbe mai amarla, Librino? Chi potrebbe affezionarsi ad un posto simile? Forse è più un omaggio alla bellezza mancata, a quello che avrebbe potuto essere e non è. Perché Librino, in origine, avrebbe voluto essere altro. Un sogno, diventato progetto sotto la firma di Kenzo Tange: l’architetto giapponese – autore del piano di ricostruzione di Hiroshima e del Memoriale della Pace, eretto sulle macerie della città – lo progettò negli anni ’70, chiamato dal Comune di Catania che cercava di bilanciare gli insediamenti, spostandone la direttrice dalla zona nord-est a quella sud-ovest. Doveva essere un quartiere moderno, con giardini lussureggianti. Prima che il progetto si interrompesse, prima che arrivasse l’abusivismo, l’incuria, il ghetto. Prima che il sogno si trasformasse in Librino.

Sara Frisina

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