La Cina e il Gattopardo

“E’ la prima volta che vengo in Sicilia e mi ha commosso vedere dei fiori molto simili a quelli che mi hanno salvato la vita: crescono nel mio villaggio e, in un certo periodo della mia esistenza, mangiare quei fiori mi ha impedito di morire di fame”.

Come è possibile per noi occidentali restare indifferenti di fronte a una frase del genere? Soprattutto se chi la pronuncia è uno degli scrittori più famosi del mondo, il cinese Mo Yan, invitato dalla Facoltà di Lettere di Catania a un incontro con dottorandi e studenti che si è tenuto il 16 maggio nel Coro di notte del Monastero dei Benedettini.

Mo Yan, autore di molti romanzi e racconti (in Italia Einaudi ha tradotto L’uomo che allevava i gatti e altri racconti, Grande seno, fianchi larghi, Il supplizio del legno di sandalo e il faulkneriano Sorgo rosso, che ha ispirato il primo film del regista Zhang Yimou), non parla altra lingua che il cinese. Senza alcun imbarazzo, Mo Yan ha spiegato, con la mediazione di una giovane interprete italiana, che non ha potuto studiare le lingue straniere perché in Cina, durante la Rivoluzione Culturale (che coincise con gli anni della sua esperienza scolastica), ogni lingua straniera era bandita dall’insegnamento, così come ogni prodotto culturale proveniente da Occidente: e ha fatto correre un brivido nelle schiene dei presenti quando ha ricordato le uccisioni indiscriminate dei suoi insegnanti, un altro frutto di quella vergognosa tragedia che fu la Rivoluzione Culturale.

         Ha poi raccontato che, quando finalmente il governo cinese ha consentito la traduzione di opere straniere, ha avuto modo di scoprire anche opere italiane (Calvino, Eco, etc.), ma il libro che ha trovato più rispondente alla sua esperienza del mondo e della natura è stato Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa.

         Abituati a vedere gli scrittori italiani, e occidentali in genere, atteggiarsi (con pochissime eccezioni) a divi o a profeti, pensate che emozione può avere suscitato ascoltare Mo Yan raccontare che ha trascorso molto tempo della sua giovinezza in solitudine, con l’unica compagnia di una mandria di mucche, mute interlocutrici delle sue riflessioni. Ecco perché non ci può scandalizzare sentirgli dire che, quando visita un paese straniero, la prima cosa che osserva è l’alimentazione della gente e la seconda sono gli elementi naturali (fiori, alberi, cielo); e dell’arte, dell’architettura ben poco gli importa. Pensate come la stessa cosa sarebbe suonata ben diversa in bocca, che ne so?, ad Alessandro Baricco!

Gianpiera Tuspe

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