La Catania che va al voto: come una nobile decaduta, non si illude più…

 

Le elezioni comunali che si terranno in Sicilia il 9 e 10 giugno, vedono Catania fra le città di primaria importanza, per risultati e per aspettative. Sia consentito a chi scrive, catanese studioso e appassionato delle tradizioni e antichità e del vissuto civico come attento al quotidiano, tracciare un breve quadro della situazione cittadina, alla vigilia dell’importante appuntamento.

Come una nobile decaduta che ha perduto la sua prisca grandezza, e similmente ad altre comunità, sopravvive per forza d’inerzia e con quel minimo di passione per non morire, senza sperare miglioramenti da alcuno nelle proposte politiche apparentemente diverse, in realtà appiattite nell’effimero e nel “particulare” del proprio personale tornaconto, imperante l’egoismo più becero: questa è la palpabile sensazione della popolazione di Catania, prima delle ennesime consultazioni. Non ci si crede più. Oppure chi ancora finge di crederci, o è necessitato o vuol fare “un favore all’amico”, andrà a votare senza convincimento. Non ci stupiremmo se come a Roma (con la quale Catania ha similitudini architettoniche non secondarie) voterà la metà degli aventi diritto.

Del resto la città è ben diversa da quella di un tempo: se negli anni Settanta, periodo di prosperità economica, contava 500 mila abitanti, oggi non ne annovera che poco meno di 300 mila: il commercio cittadino è in ginocchio, basti osservare i negozi del centro distrutti dalla crisi, più della metà chiusi o in via di fallimento -anni fa le vie Etnea, Manzoni, Vittorio Emanuele e Garibaldi, Umberto, erano l’orgoglio delle attività piccoloimprenditoriali catanesi: ora languono nella morta gora…- a causa dei mutati gusti della popolazione, infatti anch’essa geneticamente modificata, la quale sceglie i centri commerciali del circondario più che i negozi della città. E’ la forte immigrazione dai paesi e cittadine della provincia che specie negli ultimi trent’anni, ha smontato la struttura sociale di Catania, nel suo centro storico come nelle periferie-dormitorio sulle quali è solo sufficiente accennare al loro immane degrado, riguardo cui tutti cianciano ma nessuno, tranne privati munifici (vedi le autentiche iniziative di un uomo libero come Antonio Presti per i librinesi) si attiva.

La sicurezza a Catania è un fatto aleatorio: vero è che, scrive chi principalmente cammina con la macchina di San Francesco (a piedi per gli indotti), è relativamente sicura, ma forse il nostro è un caso. Lo spaccio di sostanze stupefacenti è sotto gli occhi di tutti nelle vie adiacenti piazza Stesicoro, specie nel fine settimana (via Penninello in particolare), anche se le lodevoli operazioni recenti della Procura etnea contrastano con vigore i clan malavitosi che operano questo turpe commercio; la prostituzione da strada nelle zone della Stazione e della circonvallazione dilaga, le forze del’ordine sono poche, carenti di mezzi e a volte anche demotivate dalla situazione economica. I lavavetri, nonostante una ordinanza sindacale, aumentano e divengono anche pericolosi per le donne automobiliste con cui sono particolarmente aggressivi, così i posteggiatori abusivi. Chi si azzarda a difendersi da sé, perché poche alternative esistono, rischia e pure tanto. (a sinistra e sotto, a destra, due immagini di Catania tratte da wikipedia)

L’economia si regge sostanzialmente sul mercato “nero”, che era già stato denunziato in una delle visite, da un ricoverato all’ospedale Vittorio Emanuele durante l’ultima guerra, all’allora Principe Umberto di Savoja: “Principe, qui c’è intrallazzo!”, e lui: “intrallazzo?? Cosa è?”, ma lo capì subito, notando sbiancare le facce dei tronfi ufficiali del suo seguito, alcuni dei quali magari non erano ignari della situazione. Oggi è peggio.

C’è un ceto impiegatizio e di pensionati che sta reggendo per miracolo la crisi economica, a Catania più evidente che in altre città: sobbarcandosi le spese di parenti disagiati e senza lavoro e aumenti di balzelli varii. In silenzio e dignità, stringendo i denti perchè così vuole una certa educazione. C’è una classe di arricchiti del passato che si inabissa, perchè teme l’onda, ma sostanzialmente nella sua minorità, dei problemi generali, se ne frega perchè lo può fare.

I commercianti, i bancarellari della cosiddetta “fiera” di piazza Carlo Alberto come quelli della “pescheria” dietro il Duomo, non rilasciano scontrino fiscale, almeno la maggior parte; per non dire degli abusivi. Il Comune nella riunione di Consiglio del 4 febbraio, per non dichiarare il dissesto, ha raddoppiato la TARSU annuale, che deve comunque essere pagata da tutti, anche da chi ha reddito zero (pare che a Palermo invece vi siano delle fasce di reddito ove si paghi meno), e se si obietta questo, l’ufficio tributi risponde: “si venda la casa!”. Di questi fatti incontrovertibili non si sente traccia nella campagna elettorale.

Ma c’è, una campagna elettorale? Non pare, girando per la città. Ci sono riunioni di amici, al chiuso, “ammùccia ammùccia”, mentre ufficialmente sono aperte a tutti: questo vale per ogni schieramento o lista, a prescindere dal fatto che sia nuovo o di vecchio conio (ma i vecchi simboli non ci sono quasi più). I candidati a Sindaco, dai più quotati agli altri, rilasciano interviste, ma vaghe e generiche, come sempre. Non stanno comprendendo che il tempo delle fiabe è finito, perchè “finenu i pìcciuli” e nessuno si illude più. Si rivolgono a chi ha ancora qualcosa in tasca e crede che il ‘liotro’ voli con a cavallo il mago Eliodoro. In questi giorni pre elettorali magari qualcuno ci casca.

Ci sono manifesti con facce in gran parte nuove. Si sono ridimensionati i consigli di quartiere. Qualche sacrestia vecchio stile cerca ancora il voto del parrocchiano. Altri offrono il pranzetto sulla riva del mare. E’ tutto cambiato in peggio, sociologicamente. Soprattutto per l’elezione diretta del Sindaco. Alla quale si credeva, fino al 2005 almeno: poi per le note vicende, è scemato non solo l’entusiasmo, ma soprattutto è svanita la fiducia che questo o quello possa davvero incidere positivamente sul tessuto sociale, della sicurezza e del rilancio occupazionale ed economico della città.

Una città, Catania, che se fu “tutrix Regum” durante il periodo catalano-aragonese (XIV sec.) in cui ospitò i Re di Sicilia al castello Ursino (nella foto sotto, a sinistra, tratta da manganellipalace.it), ha non a caso 2700 anni di storia indimenticabili. Non è neppure bello definirla, come certuni scrivono, la “Milano del Sud”, definizione usurocratica degli arricchiti: meglio ci pare la dizione, che ritroviamo in una guida turistica stampata da Giannotta nel 1894, di “seconda Madera” (erano i tempi del romanzo di Mantegazza, “Un giorno a Madeira”), per le qualità climatiche invidiabili, che donano la mitezza delle temperature per la maggior parte dei mesi dell’anno.

Ma già, Catania allora era la patria della Letteratura italiana, come in una conferenza nostra, mesi fa, ha giustamente ricordato l’amico poeta e linguista Salvatore Camilleri: Verga, De Roberto, Capuana, Rapisardi, erano ai vertici nazionali per importanza (gli ultimi due furono pure Presidi della Facoltà di Lettere: e di costoro, sia detto ai tanti giovani che credono ancora al cosiddetto “pezzo di carta”, nessuno ebbe la laurea…). Poi divenne la città di Brancati (che catanese non fu, ma interpretò bene il sentimento), e del catanesissimo Ercole Patti, come prima era stata dello zio Giuseppe Villaroel. “La città con le sue lastre di lava scure, le sue edicole tappezzate di giornali, i suoi cinematografi, le sue pasticcerie affollate, i suoi monumentali orinatoi sfarzosamente illuminati, aveva un’aria alacre e allegramente funebre” (Giovannino). Così Patti descrive Catania in un suo celebre romanzo, nel 1921. Al centro c’era il bar di Tricomi e allo Spirito Santo il biciclettajo Garozzo, come in via Vittorio Emanuele l’altro costruttore di bici, Giovanni Napoleone. La farmacia di riferimento era Spadaro Ventura, gli arancini si mangiavano da Giardini, i fratelli Prinzi erano grandi imprenditori e armatori e Amato Aloisio produceva borse, armi e posate di alpacca. Che ne sanno di tutto questo i nostri politicanti, per lo più “importati”, anche legittimamente, ma importati?

La gente, giovane e meno giovane, ha letteralmente “fame” di lavoro: ma lavoro la politica non ne può dare più. Tutti i candidati dicono: “non ti posso dire che lo farò, sai… ti direi una bugia…” e via discorrendo. E’ vero, i tempi sono decadenti. Ma chi si candida a guidare una comunità numerosa potrebbe se lo vuole, invertire la tendenza. Quanta gente lavorava, senza tante storie (storie significa: presenta il curriculum, che esperienze specifiche hai… salvo poi constatare che son tutte scuse…), durante le sindacature di La Ferlita e Papale, negli anni Sessanta? Oggi quella stessa gente deve pensare ad aiutare figli e nipoti perchè sono o precari, o disoccupati.

I turisti vengono qui per le nostre bellezze artistiche, ma vanno via dopo un giorno o due al massimo, perchè nonostante il fiorire di bed and breakfast, manca -se non c’è l’amico locale che ti guida- un indirizzo unitario: si lascia tutto a casaccio, con le conseguenze che possono derivare. Il Comune chiede ai privati, è un bando recente, di stampare una guida breve della città: loro descriveranno i luoghi… loro chi? Non c’è dietro, come un tempo fu, Villaroel o Saverio Fiducia….. per cui si lascia abborracciàre nella superficialità….

Questa Catania, già nobile e bella, ricorda la principessa Cerami, già dama di corte della Regina Elena: ci si racconta che sino ai primi anni Cinquanta usciva dalla sua villa in via Crociferi imbellettata e bionda, come solo le donne dell’alta nobiltà potevano allora. Morta lei, il luogo fu mutato in Facoltà di Giurisprudenza, e tutto cambiò. All’ingresso di quella villa c’è una fontana con una scritta-calembour, che il nostro amico ora innanzi all’Essere Supremo, Santi Correnti, ci illustrava con la sua contagiosa passione di storico. La costruirono i principi Rosso di Cerami nel settecento per tutti, ricordando però che non era fatta da tutti, ma da loro (“publico, non a publico, hic publicus”). Da ragazzi la vedevamo pulita, fino agli anni Ottanta. Ora è sporca, ricettacolo di bottiglie e pure imbrattata di spray. Questa è la Catania che va al voto. (a destra, via dei Crociferi: foto tratta da flickr.com)

Francesco Giordano

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