Qualche settimana fa, un giovane politico, figlio di un papà ricco e potente, ha detto che non farà il tifo per l’Italia ai prossimi Mondiali di calcio. Ovviamente, in molti si sono indignati, qualcuno l’ha mandato al diavolo, ma c’è stato anche chi gli ha detto: “Bravo!”. Solitamente, io sono indifferente al mondo dello sport, del calcio sopratutto, e l’euforia che si scatena ad ogni Mondiale mi irrita. Ma quelle parole mi hanno decisamente spaventato: perché non ho mai potuto ignorare l’idea che il Mondiale di calcio sia l’unica cosa che riesca ad unire questo dannato Paese. Insomma, tutti ci ricordiamo quella sera, il rigore di Grosso, la gioia e l’entusiasmo che hanno contagiato tutti, nessuno escluso (lo ammetto, alla fine mi sono unito anche io alla festa). E adesso ho l’impressione che non ci resti più nemmeno quello. Tra un mese vedremo se le mie cupe previsioni sono esatte, ma nell’attesa c’è un uomo che, ieri sera, nell’affollatissimo cinema Odeon, ci ha ricordato come lo sport possa diventare più che semplice gioco o competizione: può diventare l’unico legame di un intero popolo, contro ogni barriera, contro ogni intolleranza.
L’uomo in questione è l’ottantenne Clint Eastwood, deciso a non voler andare in pensione, e la storia raccontata sembra una favola di Frank Capra, ma è realmente accaduta: nel 1995 una disastrata squadra di rugby, gli Springboks, spronata dal neoeletto Presidente Mandela, vince il Mondiale di Sud Africa e unisce un’intera nazione di bianchi e neri, usciti devastati dall’orrore dell’apartheid.
Sulla carta, c’erano parecchie cose che non mi convincevano di questo film: innanzitutto, sono sempre stato del parere che lo sport e il cinema non potessero mai legarsi, a parte rare eccezioni come “Momenti di gloria” o “Alì”. Ma avevo tralasciato un particolare: il rugby è lo sport più rassomigliante ad una forma di battaglia brutale, feroce, e come tale si presta perfettamente al linguaggio filmico. Certo, ci vuole molta maestria registica nel saper rendere epica ed emozionante una partita di rugby sul grande schermo. Anche qui, ero piuttosto titubante, dato che non ho mai avuto rapporti idilliaci con i film di Eastwood, spesso troppo autocelebrativi per i miei gusti, spesso troppo finti e costruiti ad hoc per poterli apprezzare. Ma stavolta, tanto di capello per il vecchio Clint: il film trasuda un’energia travolgente, con riprese brusche e ravvicinate alternate ad intensi rallenty, che arrivano a farti sentire sulla pelle il sudore, la grinta, la furia dei giocatori in campo, colti in ringhi selvatici degni di una guerra spartana. Insomma, in questo caso la retorica gioca a fin di bene, scendendo in campo per regalarci attimi di straordinaria commozione, oltre ad un messaggio che, di questi tempi, è sempre utile ribadire. E se non bastano le immagini, ci pensa la figura di Mandela, incarnata da Morgan Freeman, che non si sa quanto si avvicini al vero Presidente, tanto è involontariamente buffo in certe circostanze (specie quando, durante noiose riunione economiche, si allontana per seguire le partite del Mondiale), quanto eccessivamente pedante nei suoi discorsi alla nazione, con le sue frasi ad effetto e le sue uscite trionfali.
Ecco, se proprio devo trovare un difetto in “Invictus”, è proprio la figura di Mandela: ma chissà che lo scopo di Eastwood non fosse quello di presentarci un Mandela realistico, un sosia dell’originale, per quanto Freeman possa assomigliargli. Semmai, il Nelson Mandela del film è un archetipo, troppo perfetto per essere vero. L’esempio che ogni politico dovrebbe seguire. E “Invictus” è un film che ogni capo di stato, ogni membro della nostra classe dirigente dovrebbe vedere. Sì, anche il giovane politico rampante che guferà contro l’Italia. Ma lui, si sa, preferisce i videogiochi…
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