Inquilini di fatto e università come botteghe

“Bisogna mettere a disposizione convenzioni per le residenze universitarie, per pagare affitti più bassi e consentire ai giovani di spostarsi. Non serve l’università sotto casa, servono servizi che consentano ai giovani di affrontare un percorso formativo senza dover investire risorse che oggi le famiglie fanno fatica a trovare”.

Con queste parole il Ministro dell’Istruzione Università e Ricerca ha risposto alle numerose manifestazioni che in tutt’Italia hanno preso piede negli ultimi giorni.

Parole che, oltre ad insinuare alcuni dubbi, allontanano da chi si appresta a scrivere un articolo ogni forma di soggettività, principio da cui nemmeno un pivello dovrebbe allontanarsi.

Il dubbio è che, se della Moratti si era detto che avesse una concezione sbagliata del sistema scolastico, visto erroneamente come un’azienda, come qualcosa di simile a un business (si parlò di “diplomificio”), la sua erede si trova in una posizione di netto svantaggio, non avendo ancora un’idea (anche sbagliata, purché ce l’abbia) di ciò che si trova ad amministrare.

Per esemplificare meglio il concetto abbiamo intervistato alcuni colleghi in merito all’argomento.

Abbiamo chiesto a quanti di loro avessero affittato casa nei pressi dell’università, quanto distasse il loro paese d’origine, se l’affitto fosse regolato da contratto e, in caso di risposta negativa, se questo si fosse potuto ottenere anche a costo di pagare una somma maggiore.

Sei i colleghi intervistati, non solo iscritti alla sede di Ragusa, queste le risposte:

C.C. vive a 40km dall’università, ha affittato casa ma senza un regolare contratto, che non avrebbe potuto ottenere nemmeno pagando di più; Z.E. vive a 25km, neanche lui/lei ha un contratto né avrebbe potuto ottenerlo in alcun modo, se non cercando un altro alloggio; G.C. vive a 60km dalla sede universitaria, non ha un contratto ma avrebbe potuto ottenerlo pagando 30€ in più al mese. G.D. invece studia a Catania, 90km dal suo paese ed è “ospite” della casa dello studente grazie alle convenzioni dell’ERSU di Catania; R.C. e G.P., vivono rispettivamente a 30 e 80km dalla facoltà e hanno un regolare contratto d’affitto.

Analizziamo le dichiarazioni della Ministro alla luce delle risposte che i nostri colleghi intervistati ci hanno fornito.

L’affermazione secondo cui ci sarebbe bisogno di convenzioni per le residenze universitarie appare infondata, in quanto esse ci sono già, non solo a Catania, ma anche in altre città italiane (vedi Ferrara e Padova, solo due esempi). Ci sono, e sono già soggette a convenzioni. Piuttosto, tali risorse (esistenti?) di cui parla l’autrice del D.L. n. 137, non potrebbero essere impiegate per farne sorgere di nuove?

Così come priva di basi solide appare l’affermazione successiva, secondo cui ulteriori convenzioni andrebbero destinate per pagare affitti più bassi; l’esempio è chiaro: su sei studenti intervistati, se si esclude chi usufruisce delle residenze di cui sopra, soltanto due hanno un regolare contratto, meno della metà. E, sebbene il campione non sia molto vasto, è lecito ipotizzare che sia rappresentativo della situazione in generale. E altrettanto lecito sarebbe chiedersi: “ma come si fa ad usufruire delle convenzioni se gli affitti sono, nella maggior parte, in nero?”. Certo, si potrebbe chiedere al padrone di casa di poter regolare l’affitto con un contratto per poter usufruire delle convenzioni ma, a conti fatti, queste sarebbero pari o addirittura inferiori all’aumento del costo dell’affitto dovuto alla presenza del contratto stesso. Oppure, soluzione più suggestiva, si potrebbe proporre la nozione di “inquilini di fatto”: in tempi in cui le “coppie di fatto” reclamano gli stessi diritti di quelle legalmente sposate, ciò non farebbe certo scalpore, anzi, caverebbe d’impiccio la Ministro che, altrimenti, dovrebbe escogitare qualcosa. Magari non da sola, ma in compagnia di quel mentore che spesso, quando si trova in cattive acque, è solita accompagnarla, a mo’ di amuleto o di padre protettivo.

Michele Agresta

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