La Sicilia durante il lockdown primaverile ha perso due miliardi al mese. Ogni cittadino siciliano ci ha rimesso 420 euro di reddito mensile, facendo i conti pro capite. E un altro miliardo è già sfumato durante il semi-lockdown. Donne, giovani e precari sono le categorie più colpite dalla crisi innescata dalla pandemia dovuta al nuovo coronavirus che è costata all’Isola il 6,9 per cento del Pil. Molto meno della media del Mezzogiorno (-9 per cento) e rispetto a quella nazionale (-9,6 per cento) ma solo perché quella della Sicilia «è un’economia regionale meno coinvolta negli interscambi commerciali interni ed esterni e, perciò, più al riparo dalle ricadute economiche della pandemia», si legge nell’ultimo rapporto Svimez, l’agenzia per lo sviluppo del Mezzogiorno.
Insomma, chi cade da più in basso si fa meno male. «È un dato che la Sicilia sia meno collegata nei rapporti internazionali – commenta a MeridioNews Benedetto Torrisi, professore di Statistica economica dell’Università di Catania e componente del Comitato scientifico del Piano strategico della Regione Siciliana – contrariamente a ciò che accade nel resto d’Italia, incluse alcune regioni del Sud come la Puglia che traina i dati del Mezzogiorno». E questo incide pesantemente sul prodotto interno lordo. «Una Sicilia dove prevalgono le attività agricole a bassa incidenza sul Pil che – aggiunge il docente – sebbene abbiano ricevuto uno scossone dal Covid, non hanno avuto perdite come quelle registrate dall’economia agricola organizzata del resto d’Italia». In pratica, le ripercussioni degli effetti della crisi economica legata alla pandemia, specie in alcuni settori, ci sono stati anche sull’Isola ma certamente di proporzione inferiore rispetto ad altre regioni. «Questo accade perché siamo già una terra produttivamente povera», sottolinea Torrisi.
E se quella del presente non è una fotografia confortante per l’Isola, guardando al futuro – almeno quello prossimo – le proiezioni non sono rosee. Nel 2021 l’economia siciliana non farà un balzo in avanti: si prevede, infatti, una crescita di appena lo 0,2 per cento. Un dato assai inferiore rispetto non solo a quello pronosticato a livello nazionale (con una media del 3,8 per cento, trainata dal Nord) ma anche di gran lunga peggiore rispetto a quello del Sud (dove il Pil si stima aumenterà dell’1,2 per cento) o di altre regioni meridionali (come la Campania con l’1,6 per cento e la Puglia con 1,7 per cento). Una ripresa affaticata anche dall’impoverimento e dalla stagnazione che ha colpito l’Isola negli ultimi dodici anni: con la crisi del 2008-2014 la Sicilia ha perso il 14 per cento del prodotto interno lordo che, negli anni successivi, era riuscito a crescere solo dello 0,7 per cento, meno anche della media del Mezzogiorno (2,5 per cento).
«La reazione che può esprimere un’economia già povera – analizza il professore – sarà inferiore o minima rispetto a quelle di economie produttive con vantaggi competitivi maggiori. Molte sono le aziende in Sicilia che hanno chiuso i battenti. Con quelle che sono rimaste, nel Piano strategico abbiamo scritto quali sarebbero le ricette per ripartire». Quel che è certo è che non si può rimanere in una condizione stazionaria. «L’economia siciliana riparte non dall’assistenzialismo ma dalla fiscalità di vantaggio per l’attrazione di nuovi investimenti che porta alla crescita occupazionale», sottolinea Torrisi. Tra l’altro, il lockdown ha già incrociato un mercato del lavoro sostanzialmente stagnante. E al Sud, stando alle analisi fatte da Svimez, si andrà incontro a una perdita di circa 280mila posti di lavoro.
«Il Covid non è stato una livella», cioè non ha reso tutti un po’ più poveri ma più uguali. Gli andamenti sul mercato del lavoro mostrano l’esatto contrario: «La crisi seguita alla pandemia – si legge nel rapporto – è stata un acceleratore dei processi di ingiustizia sociale in atto ormai da molti anni» e si è abbattuta quasi interamente sulle fasce più fragili dei lavoratori. «In Sicilia, per ripartire bisogna focalizzare l’attenzione sul potenziamento dell’industria itech, dell’industria della trasformazione dei prodotti agricoli, dell’industria turistica – elenca il docente – risolvendo subito l’infrastrutturazione e l’accessibilità dei luoghi e il riconoscimento dei costi sull’insularità. Se non creiamo occupazione e assorbiamo la disoccupazione esistente – conclude Torrisi – la ripresa è impossibile».
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