Il sangue di Scopelliti, sigillo di un’alleanza

Il giudice Antonino Scopelliti, Sostituto Procuratore Generale presso la Suprema Corte di Cassazione, è stato ucciso con due colpi d’arma da fuoco il 9 agosto del 1991, mentre, a bordo della sua automobile, percorreva la strada provinciale tra Villa San Giovanni e Campo Calabro. Inizialmente si pensò che Scopelliti fosse rimasto coinvolto in un incidente stradale, in un delitto passionale, o addirittura in un regolamento di conti interno, ma l’esame del cadavere fece emergere la verità sulla morte del magistrato, che perse la vita per mano mafiosa a causa del patto segreto tra ‘Ndrangheta e Cosa Nostra che aprì la stagione delle stragi.

Quando fu ucciso, Scopelliti stava lavorando al processo in Cassazione contro i mafiosi condannati nel primo maxiprocesso a Cosa Nostra. Toccava ai lui sostenere l’accusa nell’ultimo grado di giudizio: quello in cui, negli anni precedenti, erano spesso cadute – per ragioni quasi sempre formali – molte sentenze di condanna. Per questa ragione, si ritiene che il suo omicidio sia stato ordinato da ‘Ndrangheta e Cosa Nostra, perché si rifiutò di cedere a diversi tentativi di corruzione. Infatti, in base a quanto dichiarato dal pentito Marino Pulito, a Scopelliti furono offerti 5 miliardi per rivedere la requisitoria contro i boss della Cupola siciliana. Versione confermata anche dai pentiti della ‘Ndrangheta Giacomo Lauro e Filippo Barreca, secondo cui sarebbe stata Cosa Nostra a chiedere l’uccisione di Scopelliti come “favore”alla ‘Ndrangheta. Cosa Nostra, in cambio, sarebbe intervenuta per interrompere la seconda guerra di mafia che divampava a Reggio Calabria dal 1985. Due i processi celebrati a Reggio per questo omicidio: il primo contro Totò Riina e tredici boss della Cupola, il secondo processo contro Bernardo Provenzano ed altri nove boss della Commissione regionale, tra i quali Nitto Santapaola. In primo grado le condanne furono numerose. Ma in Appello, tra il 1998 e il 2000, queste sentenza furono annullate perché le accuse dei diciassette collaboratori di giustizia, nonché del boss Giovanni Brusca, furono considerate discordanti.

Fino ad oggi, la morte del giudice Nino Scopelliti non ha ancora ottenuto giustizia, e per il suo assassinio la ‘Ndrangheta calabrese non è mai stata processata.

Per questa ragione, dall’incontro tra Aldo Pecora, presidente del movimento antimafia calabrese “Ammazzateci tutti” e Rosanna Scopelliti, figlia del magistrato assassinato, è nato “Primo sangue”, un libro-inchiesta sulla storia del giudice solo, ucciso perché “non ha voluto trattare”, presentato a Catania lo scorso mercoledì alla libreria Tertulia.

«Il volume è nato da un’esigenza di memoria per un paese come l’Italia, incline a dimenticare – spiega Aldo Pecora, autore del libro. – Abbiamo voluto ricostruire un periodo storico fondamentale, quando Cosa Nostra si preparava ad attuare un disegno sconcertate: le stragi di mafia. Nino Scopelliti è stato il “primo sangue” perché aveva in mano il Maxi processo in Cassazione e la sua morte è stata un segnale forte che la mafia ha voluto mandare a Roma». Dopo aver chiarito i punti sulla lunga vicenda giudiziaria che ha interessato la morte del magistrato, e le dinamiche che hanno portato alla conclusione dell’accordo “infame” tra Cosa Nostra e ‘Ndrangheta calabrese, Pecora mette sul piatto le ragioni che lo hanno spinto ad accettare di scrivere un volume che «non deve vendere, ma aprire un varco e far luce su quello che è accaduto a Campo Calabro vent’anni fa, e sui nuovi scenari della criminalità organizzata. Scopelliti è stato il primo sangue, ma deve essere anche l’ultimo di un giudice calabrese ucciso e lasciato solo dallo stesso stato che ha servito fino alla morte, e ricostruendo la sua storia ricostruisco la vergogna dello stato italiano in Calabria dal ’91 al 2005», conclude l’autore.

“Primo sangue”, come tiene a precisare Pecora, è rivolto ai giovani e ripercorre con occhio giornalistico la storia della mafia degli anni ’80 e ’90, con un prospettiva anche sul presente della ‘Ndrangheta calabrese. La ricostruzione di quegli anni di fuoco è stata possibile anche grazie ai contributi del giudice Salvatore Boemi, «il Falcone calabrese», come lo definisce Pecora, memoria storica dell’antimafia reggina e «il primo che a voler processare la ‘Ndrangheta come organizzazione unitaria». Il libro contiene anche un’intervista esclusiva al magistrato Nicola Gratteri, considerato dall’autore «il futuro dell’antimafia».

Presente all’incontro anche Rosanna, figlia di Scopelliti, che ricorda il giudice come padre e come uomo che ha dedicato la vita alla ricerca della giustizia. «È stato un magistrato che faceva il suo lavoro. Non amo definirlo un eroe perché è un modo di lavarsi la coscienza: ognuno di noi può essere un eroe nel momento in cui sceglie da che parte stare. Mio padre era una persona normale, e un martire come tutte le vittime della mafia, che credeva nella giustizia e che per difenderla ha sacrificato il bene più grande. Era una persona come la quale ognuno di noi dovrebbe voler essere».

Rosanna è emozionata quando parla del padre che le è stato strappato in un modo così vile quando era solo una bambina. Racconta della sua infanzia, della paura che il padre provava temendo ritorsioni sulla sua famiglia, spaventato a tal punto da celare l’esistenza di sua figlia, costretto a doverla nascondere, durante gli spostamenti, in una “valigia rossa” perché non si fidava di nessuno. «Aveva paura, – dice – ma la combatteva col coraggio della fantasia. E con noi è stato sempre presente ed affettuoso». Rosanna parla anche della difficoltà, vissuta fino a qualche anno fa, nell’accettare le scelte del padre, della sofferenza e del senso di colpa, come se «fossimo noi, i familiari delle vittime, quelli sbagliati» e della solitudine nella quale le istituzioni hanno abbandonato lei e sua madre. Da qui anche la voglia di affidare le sue memorie di figlia e il ricordo del padre ad Aldo Pecora, perché «il libro andava fatto, e volevo che fosse qualcuno esterno alla vicenda a ricostruire la storia del giudice Scopelliti, qualcuno che analizzasse i fatti a mente fredda, non con gli occhi di una figlia. Il libro deve riaprire il fascicolo di un delitto che non è stato risolto e un processo incompleto. Mio padre non ha avuto giustizia e questo è vergognoso per il nostro Paese. Le storie delle vittime di mafia non devono essere dimenticate». E conclude: «Adesso, nonostante il dolore per la perdita di mio padre, posso dire di essere orgogliosa di lui. Non so quanti figli di boss possono dire la stessa cosa».

Perla Maria Gubernale

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