La seconda edizione di Intermezzo 2019, la rassegna dedicata alla videoarte, si avvia al suo ultimo appuntamento, visitabile a Villa Zito fino al 27 gennaio 2020. Il percorso artistico tutto al femminile creato e diretto da Agata Polizzi porta a Palermo Gili Lavy, artista di origine israeliana da anni stabilitasi a Londra. Un’artista che traspone nel mondo della videoarte la solitudine esistenziale della scuola distopica britannica. La sua opera Acrege è un’installazione con multiprospettiva ambientale simultanea, capace di rendere la volumetria spaziale attraverso l’interazione delle immagini, divise su tre pareti contigue, consegnando allo spettatore la contemporaneità della percezione ambientale. Una troupe professionale, composta da trenta persone, è stata impegnata per girare nella neve delle Highlands scozzesi con camere ad alta definizione, dando vita ad un prodotto capace di colpire lo spettatore attraverso l’assenza quasi totale della presenza umana, dispersa nella vastità del territorio brullo degli altopiani.
«Ci troviamo davanti ad un’opera del 2018 che esplora il rapporto tra uomo e natura, leggendo l’ambiente selvaggio come contenitore di ogni altro soggetto vivente, esseri umani compresi, è una riflessione sui rapporti sociali, confrontando il regno animale con la dimensione umana», spiega la curatrice dell’evento, introducendo la critica d’arte Eleonora Lombardo, il cui punto di vista aiuta a comprendere la visione di un’opera che, «seppur poco rassicurante, ci aiuta nell’interpretazione della realtà abituandoci a restare a contatto con il problema drammatizzando gli eventi», commenta l’esperta. «L’opera mostra una mescolanza di futuro e passato, esponendo una sorta di regressione della società futura, obbligata a restare in contatto con la natura per non soccombere, mostrandoci come la presenza debba diventare collettiva e la sopravvivenza risieda nello stabilire nuove parentele, concordanze con le altre persone, che prescindano quelli di sangue, ricordandoci sempre l’importanza della terra da cui ci siamo allontanati, mostrato qui attraverso il tempo atmosferico ostile e freddo – osserva Lombardo -. Capace di creare una situazione estrema, nella quale il legame tra uomo e natura diviene necessario per la sopravvivenza».
«Il tempo del racconto, all’interno della mia opera, analizza una situazione primordiale di caccia e sopravvivenza, un rapporto tra animali e umani, ritratti in un paesaggio crudo e spoglio, in cui il vuoto connette la materia lasciando percepire allo spettatore il peso dell’assenza», racconta poi l’artista, precisando come la propria opera sia volutamente atemporale, collocata in uno stato mentale personale, astratto dalla concezione di passato nel presente o futuro. «Come non è importante il luogo in cui l’azione si svolge, anche il peso dell’evento scatenante del racconto non incide sulla narrazione visuale, è la mancanza dello stesso ad attirare l’attenzione dello spettatore», spiega, illustrando i canoni di una narrazione più documentaristica che fictionale.
«Il paesaggio primitivo, ostile e roccioso, vuole catturare l’aspetto selvaggio della natura, in cui l’uomo è una presenza piccola, quasi insignificante», prosegue la Lavy, «si tratta della magnificenza naturale attraversata da uomini, donne e bambini in viaggio, in cerca di qualcosa – prosegue Lavy, tirando in ballo un parallelismo con la situazione dei rifugiati in vari paesi del mondo -. Questo momento potrebbe essere anche la visione di un disastro prossimo venturo», un tema tipicamente inglese legato alla «premonizione di un disastro in cui tutti possano riconoscersi, chiedendosi quale sia il ruolo dell’uomo in tutto ciò. Qui si parla di ruolo rispetto alla natura, di sopravvivenza al disastro e di rapporto con la terra», rivela ancora l’artista, confermando una relazione dell’opera con la situazione mediorientale, in cui la scomparsa delle nazioni rappresenta una minaccia costante, generando uno stato di insicurezza permanente che influenza la sua poetica, legata comunque ad un messaggio di speranza.
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