Il padre di Montalbano si racconta

Parliamo del suo rapporto con la Sicilia, ho letto che dal 2003 Porto Empedocle ha cambiato ufficialmente nome in Porto Empedocle-Vigata, segno di profonda benevolenza da parte del suo paese e della Sicilia. Per lei quanto è intenso il suo rapporto con la Sicilia?

Intensissimo, intensissimo, nec tecum nec sine te, identico al rapporto amoroso, no? Nè con te nè senza di te. Quando ci sono mi indigno per duemila cose, quando non ci sono le rimpiango.

 

Lei come vive e scrive la Sicilia standone fuori?

Ma sa è una Sicilia… sa che c’è? La lontananza colora forse meglio e assai più certe cose che viste da vicine sono prive di colore.

 

Parliamo della sua arte letteraria. Come ha iniziato a scrivere? Qual è stata la spinta che l’ha portato a scrivere?

Io ho cominciato a scrivere giovanissimo, devo dire anche a pubblicare. Già nel ‘45 pubblicavo poesie su riviste italiane importanti, non so, Mercurio della Desespedes, poesie in un antologia di Ungaretti, anche racconti scrivevo, per l’Italia socialista che era una bellissima terza pagina o L’Ora di Palermo. Io in realtà feci l’esame all’Accademia d’arte drammatica per prendermi ‘sta borsa di studio e vivere a Roma e scrivere, non avevo nessuna voglia di fare teatro. Senonchè ero l’unico regista, e tutti i lavori di regia che Orazio Costa doveva fare piombarono su di me. E quindi Orazio Costa prese il mio cervello e lo dirottò completamente ed io non potei più scrivere nulla. C’è stato questo iato che poi si è ricomposto dopo 24 anni.

 

Come costruisce un personaggio?

Mah, in genere i miei personaggi, almeno il personaggio principale, nasce sempre, non dalla mia fantasia, ma da un fatto di cronaca o da qualcosa che ho letto, dopo di che io lo modifico, ma l’input è quello, cioè una realtà, per forza di cose, però a poco a poco…

Per prima cosa lo faccio parlare, e questo credo che sia un retaggio del teatro, una eredità del teatro, lo faccio parlare e dialogare, dopo, da come dialoga, da come parla, a poco a poco ne assumo, ne deduco direi, i tratti fisici.

 

È un lavoro di immaginazione?

Lo sento parlare in una stanza, comincio a immaginarlo come parlerebbe con una donna, con un amico, con un uomo, e a poco a poco comincio a vederlo, ex ore tuo to iudico, dalle tue parole ti giudico, dalle tue parole ti produco proprio.

 

Come costruisce un romanzo giallo?

Un romanzo giallo ha delle regole precise, cioè delle regole cui uno non può minimamente saltare passi logici, nè può saltare fatti temporali, assolutamente, deve avere una consecutio temporum e una consecutio spatialis assolute.

 

È la gabbia di cui parlava Sciascia? Un esercizio letterario?

Esatto. È la gabbia di cui parlava Sciascia, infatti io l’ho scritto per questo, l’ho scritto come esercizio per me il primo giallo, non l’ho scritto perché avevo voglia di scrivere un giallo. Siccome io comincio a scrivere un romanzo da un input, e poi naturalmente costruendoci attorno il romanzo sto romanzo finisce, questo input iniziale non so dove và a finire, nel 99 per cento dei casi non è mai il primo capitolo, e poi comincio che è notte invece il romanzo comincia con un alba…

 

È la struttura del Birraio di Preston…

Esatto, nel Birraio è proprio dichiarato. E allora ho detto ma sono capace di scrivere un romanzo dall’A alla Z, cominciando che è alba e finendo con un tramonto? L’unica gabbia vera in questo senso è il romanzo giallo, su lettura di Sciascia.

E ho scritto il primo giallo, poi siccome il personaggio m’era rimasto non compiuto, secondo me era troppo una finzione, ho scritto il secondo e ho deciso di finire lì con Il cane di terracotta. Finiva li io non sarei mai più tornato su Montalbano.

Senonchè Elvira Sellerio, mi disse «mandami una altro Montalbano». «Io non ho più nessuna intenzione di scrivere Montalbano», « Ma tu stai scherzando, in un anno da 150.000 copie siamo passati a 900.000 copie con Montalbano, non solo, ma si tira appresso tutti gli altri romanzi». E quindi ho detto vabbè va, e allora scrissi il terzo, e da quel momento il personaggio cominciò a rompermi le scatole perché girava casa casa continuamente.

 

Perché usa il lessico, la fraseologia siciliana? Forse perché, con le sue coloriture, arricchisce la semantica dell’italiano?

Non è arricchirlo, è semmai un modo mio, una carenza mia, io non so usare l’italiano come so usare il dialetto, tutti i dialetti finiscono sempre col dire sfumature di più di quanto non dica una parola in lingua, ecco allora in lingua mi vengono a mancare una quantità di sfumature.

 

Che intervento opera sui suoi libri quando li trasforma in sceneggiature per la televisione? L’uso del siciliano è meno accentuato, viene “limato” in qualche modo?

Sì, lo faccio io quel lavoro, e lo faccio per diversi motivi. Primo perché la sceneggiatura televisiva taglia una quantità di cose, di necessità, che nel romanzo io due righe dopo spiego, cosa significa una certa parola, trovo modo di spiegarlo. Non posso farlo in televisione, non c’ho “le due righe dopo” in televisione, il ritmo narrativo della televisione va a “carte quarantotto” e quindi sono costretto a “limare” il mio linguaggio.

Questo è un motivo, l’altro motivo è che l’attore non essendo siciliano certe volte, non mi piace che usi un siciliano pronunciato di maniera e quindi gli trovo una parola che in qualche modo sia più facile per lui da dire senza che abbia quel cattivo, orrendo siciliano che sentiamo spesso e volentieri.

 

Quando ha scritto Montalbano, lo ha immaginato in una certa maniera, poi in televisione si è concretizzato nel volto di un attore. Quando lo scrive adesso prescinde dall’attore?

No, non ha nulla a che vedere con il Montalbano televisivo, prescinde totalmente, veramente, non faccio fatica a prescindere, è un’altra cosa, è un altro dominio, un altro regno.

 

Lei ha scritto libri di diverso genere. C’è qualche ambito che non ha ancora affrontato e che le piacerebbe esplorare?

No, no. Sinceramente no, non ho presupposti di esplorazione di scrittura. È l’occasione che mi porta a scrivere una certa cosa, l’occasione e una certa spinta interiore. Ho scritto una storia che ancora sto rivedendo tutta, che riguarda i frati del convento della Quisquina quelli che spararono al vescovo di Agrigento nel ‘45

 

Sicuramente riceve molte richieste di supervisione da parte di giovani scrittori.

Continuamente. Ma non posso più. Posso dare sempre meno consigli, sa perché leggo sempre di meno perché non sto bene con gli occhi, io soffro di dipropia, che significa che il rigo si spezza in due e quindi è come se fossi costantemente ‘mbriaco e vedessi doppio.

Leggere non posso, riesco a leggere due tre pagine al giorno, ben stampate, ma scritte così non ce la faccio proprio. Ho trovato anche un adattamento a scrivere con il computer, ci si adatta a tutto, mettendomi in una certa posizione, in qualche modo attenuo, mi sta leggermente passando, perché mi hanno fatto diverse cose, la risonanza magnetica al cervello, e con delle cure, il rigo sta ritornando, si sta ricongiungendo.

Sara Ridolfo

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