Il nespolo secondo me

Aldo è un giardiniere che ama raccontare storie, Sara una giovane docente a contratto in scadenza e Marco uno studente con “visioni divergenti”. Questi tre personaggi sono nati in un pomeriggio dello scorso giugno nel giardino dei novizi dell’ex Monastero dei Benedettini di Catania e sono finiti in un racconto amaro.
Ero sotto l’albero di carrubo del giardino con un manuale di psicologia sociale sulle ginocchia e con poco interesse per le teorie motivazionali. Data la scarsa voglia di studiare cominciai a pensare ad altro, ad una storia con giardinieri, professori e studenti. Aldo, Sara e Matteo uscivano dai miei pensieri e prendevano vita sotto il nespolo.

Poco dopo il senso del dovere e l’imminente esame mi riportarono nel fantastico mondo della psicologia. La stessa sera, però, Aldo, Sara e Matteo sono tornati a trovarmi, e come un Geppetto digitale decisi di scolpire le loro storie. Al posto di legno e scalpello, una tastiera e lo schermo del computer.

Stavo scrivendo una storia per Raccontare il monastero, e la colpa era degli organizzatori che avevano prorogato la data di scadenza per la consegna degli elaborati. Scrissi qualche pagina, e le inviai a due persone. Avevo bisogno di conferme, volevo il parere di un lettore. Ma anche più di uno. Decisi di inviarlo a due amiche. Ad una lo inviai perché da settimane provava a convincermi a scrivere e ad un’altra perché già in passato era stata spesso mia consulente di scrittura.

Entrambe le loro risposte furono positive. La prima mi disse: «sei un disgraziato, sono settimane che ti dico di scrivere il racconto per il concorso, e tu l’hai scritto adesso che ho l’esame». Ma dopo avermi dato del disgraziato, mi ha anche detto che le storie si fanno leggere d’un fiato e che le descrizioni sono piene di luce. Cominciavo a pensare che ci potevo riuscire. Mancava ancora la fine, il racconto era tutto da rivedere ma potevo farcela.
L’amica a cui chiedo spesso consigli per la scrittura mi invitò a continuare, il racconto le era piaciuto ma cosa più importante era disposta a farmi da “consulente artistica”. Una pacchia!

Mi ero convinto, avrei continuato a scrivere.

Sotto consiglio della consulente ho eliminato (per fortuna) Berlusconi dal racconto (si, c’era un riferimento al premier) ho tagliato delle parti, ne ho aggiunto altre. Poi ho ripreso le parti eliminate, ma poi le ho tolte nuovamente. Non tutte, qualcuna è rimasta. Insomma, l’ho letto e l’ho riletto. L’ho corretto e fatto correggere. Ho fatto in modo che Marco non mi assomigliasse per niente.
Mancava solo il titolo, e un altro paio di letture. Inviai il racconto ad altri due amici.

Ormai c’ero quasi, era pronto. L’avrei consegnato. Avevo tra le mani un racconto un po’ triste ma venato d’ironia.
L’ho messo in una busta enorme e l’ho lasciato in segreteria di presidenza.
Dopo ne ho stampato tre copie, ho creato la copertina e ne ho fatto una versione artigianale. Molto artigianale.

Qualche mese dopo mi chiamano per annunciarmi che il mio racconto è stato premiato con il secondo posto. Mi chiamano ma io non rispondo, il cellulare l’ho dimenticato in radio. Quando mi accorgo delle due chiamate senza risposta richiamo ma digito male il numero e parlo per dieci minuti con un dipendente dell’università che ovviamente non sapeva chi fossi, nè cosa volessi. Per fortuna l’organizzatrice del concorso decide di venirmi ad annunciare la vittoria di persona, se avesse aspettato la mia telefonata sarebbero passati mesi. «Il tuo racconto è stato premiato con il secondo posto, mi dice. «Era previsto solo un premio ma visto che ci è piaciuto abbiamo deciso di premiarti istituendo il secondo posto», aggiunge. Sorrido con tutti i denti che ho.
Il giorno dopo mi premiano in facoltà, sono contento. Racconto storie (alcuni direbbero minchiate) ogni giorno se una di queste viene premiata non può che farmi piacere.
Adesso aspetto il mio premio, non vedo l’ora di fare shopping in libreria.

Ecco il racconto.

Il nespolo


                              
                                                        

Aldo raccolse tre nespole e le porse a Sara e Matteo. I due erano seduti a terra sotto l’ombra dell’albero. Erano in pausa pranzo, la prima in attesa di tornare a fare lezione, il secondo in attesa che gli tornasse la voglia di studiare.
Aldo aveva già finito il suo turno di lavoro, ma, come al solito, si trattenne oltre, gli piaceva la compagnia dei due.
«Minchia, ma quanto sono grosse? Questo albero fa nespole meravigliose! Sono giorni che le guardo, le controllo. Ora sono belle mature, è il momento migliore per mangiarle», disse Aldo mentre ne masticava una sputando l’osso.
«Ne volete altre?» Chiese.
«No», rispose Sara «Ho giusto il tempo di un’ultima sigaretta e poi mi aspetta una lezione. Sapeste quanto odio le lezioni alle due e mezza! Non si può digerire e fare lezione contemporaneamente», disse sorridendo.
«Io un’altra la mangerei volentieri», fece Matteo. «Quale mi consigli di raccogliere? Che non sia troppo in alto però!»
«Vuoi le cose buone senza sforzo tu… aah, questi giovani d’oggi!» Esclamò Aldo mentre con un lungo bastone gli indicò dove raccogliere le nespole mature.

Mentre Matteo provava ad arrampicarsi sull’albero per raccogliere i frutti migliori, Sara si alzò per  scuotere i suoi pantaloni e scrollarsi la polvere di dosso. «Quando ci rivedremo Aldo?»
«Dopodomani, mercoledì. Attacco alle sette e finisco all’una, al solito», le rispose automaticamente.
«Allora pranziamo di nuovo assieme!». Poi, voltandosi verso Matteo: «A te ti vedo sempre, è inutile che ti chieda quando ci rivedremo. Dovrebbero darti la “residenza onoraria”, qui al Monastero!», gli disse mentre si è già voltata per andare.

Sara era una giovane docente a contratto in scadenza, non sapeva se fosse riuscita a continuare ad insegnare. Nulla si sapeva sul rinnovo del contratto. C’erano troppi Ddl di mezzo e pochi soldi. Sara aveva studiato Lettere nello stesso posto in cui aveva finito per insegnare. L’ex Monastero dei benedettini di Catania era stato il luogo più importante dei suoi ultimi dieci anni, prima perché studentessa e poi perché docente. Insegnava Editoria e nuovi media. Non si era ben integrata con il resto dei docenti, quelli che prima erano stati i suoi professori e poi diventarono i suoi colleghi. «I professori sono strani animali, escono dalle aule e continuano a parlare di lezioni, esami e nuovi piani ministeriali», diceva sempre. Quei pranzi per lei erano sempre troppo pesanti da digerire, per questo preferiva trascorrere la sua pausa con il giardiniere Aldo e con Matteo, simpatico studente fuori corso da un po’. Si incontravano tutte le volte che potevano nel giardino dei novizi, al primo piano. Lì lavorava Aldo e lì amava studiare -o provare a farlo- Matteo.

Aldo era un simpatico sessantenne che lavorava per una ditta che si occupa della manutenzione dei giardini: tre volte a settimana Aldo veniva mandato a prendersi cura del giardino dei novizi. «Lo sento mio questo giardino, venire qui non è un lavoro, è proprio come se fosse mio ‘sto giardino», diceva sempre. C’erano giorni in cui tagliava la lavanda e in quei giorni c’era un profumo che nemmeno l’odore di mille sigarette riusciva a nascondere, mentre altri giorni potava le piante di agrumi. Quelle erano la sua più grande sconfitta. Da anni provava a farle crescere rigogliose, voleva riuscire a mangiarne qualche frutto, ma i suoi tentativi erano stati del tutto vani. In quel giardino gli aranci non crescevano, rimanevano brutti, rinsecchiti, rachitici.
«Ai monaci i ranci nun ci piacieunu. Ho sempre coltivato tutto, solo queste piante non riesco a far andar bene. Sarà per volontà dei monaci», si giustificava Aldo. Nel giardino c’erano anche grandi agavi con grosse spine sulle punte, qualche palma, delle rose rosse e altre gialle. C’erano cycas e siepi d’alloro. C’era anche un bel carrubo e delle piante di cui Aldo non conosceva il nome, per questo le chiamava tutte macchi i bellimientu oppure, se erano piante grasse, diventavano tutte cactus.

Aldo viveva in una piccola casa nel quartiere Cibali di Catania, vicino lo stadio. La domenica sentiva i cori e non aveva bisogno della tv per conoscere i risultati delle partite. Capiva tutto dalle urla dei tifosi. Aldo viveva da solo, la moglie lo aveva lasciato pochi mesi dopo il matrimonio. Aveva vent’anni e si era da poco trasferito a Catania, era ragusano d’origine. Dalla morte della moglie era diventato più riservato e schivo di quanto già non fosse, non faceva altro che lavorare e ogni tanto, la domenica, andava a prendere un seltz con limone e sale nel solito chiosco. Scambiava poche parole e tornava a casa.

Due amici li aveva, ed erano Sara e Matteo conosciuti nel suo giardino. Da quindici anni Aldo curava il giardino dei novizi, da quindici anni, tre volte alla settimana, entrava dal vecchio cancello in fondo al giardino con le sue scarpe pesanti e la sua borsa di attrezzi e trascorreva sette ore a prendersi cura delle piante. In quindici anni aveva fatto amicizia solo con loro due.
«Matteo tu non ti devi laureare, che se ti laurei io con chi parlo? Mi fumu sulu ‘i sigaretti?» gli diceva sempre Aldo scherzando, ma non troppo.
«Aspetta un altro po’, vedi se ti possono dare un posto da bidello e rimani qui a farmi compagnia. Stai attento, non fare il professore che poi ti licenziano, giusto Sara?» e giù a ridere tutti e tre.

Aldo conosceva ogni angolo di quel posto e si divertiva a raccontarne le storie. Ogni giorno da lì passavano tanti studenti, docenti e turisti. Lui osservava e ascoltava tutto. Registrava. C’erano persone di passaggio e altre più fedeli. C’era la coppietta di fidanzatini che trascorreva lì qualche ora abbracciandosi e c’era chi preferiva studiare. C’era anche chi non faceva nulla e passeggiava nel giardino solo per fumare. Tutte le volte che incrociava le guide che portavano in giro i turisti pensava che le sue storie li avrebbero interessati di più. Però le guide le ascoltava, aveva imparato molto da loro. Sapeva, infatti, che i bocchettoni dell’aria che arrivavano dalla centrale termica, erano di quella forma perché riprendevano l’idea delle canne dell’organo di Donato del Piano. Sapeva anche che la fontana -lui la ricordava da sempre senz’acqua- nell’idea originale doveva essere uno spettacolo di suoni e colori. Sapeva anche che questi progetti erano dell’architetto Giancarlo De Carlo. Non aveva la più pallida idea di chi fosse, ma questo non era importante. Sicuramente era una persona illustre e morta. Doveva essere per forza così se gli avevano intitolato l’auditorium del monastero.

«Iu sugnu ‘gnuranti ma sacciu ‘n saccu ‘i stori . Un sacco di storie che ascolto, vivo e poi racconto», diceva sempre Aldo. Le sue storie le ascoltavano quasi esclusivamente Sara e Matteo, che gli aveva confidato di voler fare una tesi con il suo aiuto. Una bella tesi sulla storia orale. Lo avrebbe intervistato e raccolto le sue storie per pubblicarle in un blog. «Se migliaia di studenti si iscrivono ad una pagina Facebook di un cane che gironzola per il monastero, perché non dovrebbero leggere ed essere interessati alle tue storie?» si chiedeva. Aldo non sapeva precisamente né che fosse la storia orale e né cosa fosse un blog, ma poco importava: se serviva per la tesi di Matteo, gli avrebbe raccontato tutte le storie che voleva. Sulla prima erano già d’accordo. Quella del fidanzatino romantico e del pisciatoio. Aldo l’aveva raccontata a Matteo, ma non a Sara che volle subito sentirla.

«C’era una volta», cominciò Aldo. «C’era una volta, in una giornata in cui il cielo era molto grigio e piovigginava, un ragazzo che portò la sua fidanzatina qui, nel giardino. A causa della pioggia si sedettero là, vicino all’ingresso dove c’è quella mezza cupoletta con due piccole stanzette ai lati. I due si abbracciavano, si baciavano, forse si dicevano pure frasi dolci all’orecchio. Sembravano contenti. Ad un certo punto lui tira fuori dallo zaino due contenitori di plastica. Aveva portato il pranzo per tutti e due: insalata di riso. Mentre mangiavano la ragazza chiese al fidanzato cosa potesse essere in origine quella strana mezza cupola sotto la quale erano seduti. “Buh, sarà il resto di una costruzione più grande”, gli rispose lui. “Magari qualcosa che aveva a che fare con una cappella per pregare”. La risposta sembrò soddisfarla, non chiese altro. Continuarono a mangiare e dopo ripresero ad abbracciarsi. Poi ad un certo punto andarono via, senza sapere che il loro romantico covo d’amore non era il resto di una cappella ma il pisciatoio dei monaci benedettini».

Sara e Matteo risero mentre Aldo aspirò l’ultima boccata dalla sigaretta che lo aveva accompagnato nel racconto e che aveva usato per fendere l’aria come fa un direttore d’orchestra per dirigere i suoi musicisti. Aldo scandiva il tempo del racconto con la sua bacchetta fatta di tabacco che andava consumandosi, mentre con l’altro braccio si reggeva su un rastrello. «Una storia non deve durare più del tempo di una sigaretta o rischia di annoiare», ripeteva sempre.
«In ritardo oggi», disse Aldo a Sara che gli si siede accanto. «Io il mio panino l’ho già mangiato».
«Per me ho preso una cosa al panificio ma non ho fame. Matteo? Ho portato la birra anche per lui». Sara si guardò intorno e porse la birra ad Aldo.
«Matteo aveva un esame stamattina, mi ha detto che si sarebbe sbrigato. Arriverà. Tu perché non hai fame, qualcosa non va?»,
«Le solite cose, una serie di casini e fra qualche mese sarò senza lavoro. Non mi va di parlarne. Parla tu, raccontami qualcosa, qualsiasi cosa pur che non si parli di università».
«Questo pericolo con me non c’è, io di piante ti posso parlare, potature, concimazioni e cosi antichi».
«Perfetto! Aldo, ma qual è la pianta che ami di più tra queste del giardino?», gli chiese Sara bevendo un sorso di birra.
«Senza dubbio il carrubo. Guardalo quanto è bello, sono orgoglioso di lui. Quando sono arrivato non c’era, è nato sei o sette anni fa. L’ho seminato io stesso, ho preso un seme e l’ho messo nella terra».
«Un carato?»
«Cosa?»
«Un carato. Il seme di carrubo si chiama carato», gli spiegò Sarà.
«Nun lu sapìa», ammette candidamente Aldo. «So che tutti i semi di carrubo sono uguali e che hanno lo stesso peso e che gli antichi lo usavano come unità di misura, ma non ne conoscevo il nome. Il carato pensavo avesse a che fare solo con l’oro».
«Dici sempre che io sono quella istruita, ma tu sai un sacco di cose!».
«Stori, sulu stori e nenti chiù», la interruppe Aldo.
«E allora continua la storia del carrubo dei novizi», disse Sara che aveva finito di scolarsi la birra.
«L’ho seminato io. Poi è nato, l’ho curato fino a quando è diventato abbastanza grande per innestarlo perché gli alberi che nascono dal seme non sono….non sono…in dialetto si dice non sono latini, insomma sono selvatici. Non producono bene e si devono innestare». Sara gli fa cenno di andare avanti, ‘ché ha capito.
«L’ho innestato io con una gemma di un albero di carrubo presa direttamente nel ragusano, là sì che ci sono tanti alberi di carrubo. L’ho innestato ed è venuto su bene, vedi quanto è bello? Talìa chi  ummira fa! Una volta una studentessa è venuta qui d’estate. Sarà stata una mattina intorno al 20 agosto, è venuta qui e ha raccolto qualche carruba. Mi disse che erano per il coniglio. Nun si ni virunu mai, cà, studenti a austu», disse Aldo prima di aspirare dalla sua sigaretta.
«E tu che ci facevi qui ad agosto?», fece Matteo che, come promesso, li raggiungeva per pranzo. «Non vai in ferie?»
«Sii, i ferii! Quannu sugnu ‘n ferii viegnu ‘u stissu. Mica le piante vivono d’aria! Almeno, non solo d’aria…», rispose prima di tendere un sigaretta a Matteo «Sigaretta dopo un esame andato bene?»
«Sì, bene. Non un voto alto, ma è andato. Ventiquattro!»

Matteo era a tre materie dalla fine. Era un po’ lento ma comunque un valido studente al quinto anno di università e ad un passo della laurea triennale. Era molto intelligente e la sua media diceva che, con molta probabilità, il suo voto finale sarebbe stato 110, sulla lode non si pronunciava.
Aveva passato i primi tre anni di università dentro i collettivi, poi si era stufato. Gli altri studenti gli dicevano sempre: «Hai buone idee ma non sei in grado di proteste forti». Smise di frequentarli per “visioni divergenti” su tutto. Decise di impegnarsi con uno strumento diverso: non più i collettivi, meglio il giornalismo. Scriveva per un giornale universitario, ma non era questo ad aver rallentato la sua carriera universitaria. «Ho i miei tempi», diceva sempre.

Nei suoi tempi ci stavano dentro interi pomeriggi a guardare serie di telefilm, lunghe passeggiate e lunghissime chiacchierate con il suo miglior amico Stefano. Le notti non erano escluse da quelli che chiamava “momenti per sentirsi vivo”. Spesso trascorreva nottate ad ascoltare musica ad alto volume con le sue cuffie Akg. Almeno una volta al mese doveva ascoltare l’intero album “Socialismo tascabile” degli Offlaga Disco Pax,  per meditare. In quelle serate spesso a casa sua c’era Stefano, in quel caso non si meditava ma si discuteva. Nottate a fare e disfare progetti. Alla fine rimanevano le lattine di birra sul pavimento e il posacenere pieno di cicche. A volte qualche foglio con due righe per i “progetti futuri” riusciva a superare la notte. Uno di questi fogli sopravvissuti alle notti di parole, musica, sigarette e birra, superstite alla pulizia del giorno dopo, si era guadagnato un pezzo di muro. Era stato scritto da una mano non molto sobria, la grafia era da montagne russe, ma si leggeva bene: “c’ hanno davvero preso tutto”. Avevano citato gli Offlaga ma in realtà avevano trasformato in parole un pensiero che li accompagnava da tempo.

«Aldo, tu alla mia età fumavi? »
«Io fumo da quando ho diciannove anni, non sono mai riuscito a smettere», gli rispose Aldo.
«Non intendevo le sigarette. Ti sei mai fatto le canne? O te le fai? », gli chiese sorridente Matteo.
«No, mai. Nun mi piaciunu si cosi», afferma Aldo facendo una buffa smorfia.
«A me rilassano, ma a volte forse dovrei evitare. Ho dei ricordi vaghi di notti che discutendo con Stefano siamo riusciti a trovare la soluzione ai nostri problemi, ma non la ricordo».
«Forse è proprio perché fumate che ci arrivate ad una soluzione?»
«Certo, sarà sicuramente così. Una di queste sere dovrei registrare tutto quello che facciamo e ci diciamo io e Stefano nei nostri deliri notturni», disse con convinzione Matteo. «Forse risolveremmo i problemi del mondo, o almeno i nostri».
«Se funzionasse mi farei le canne tutti i giorni. Purtroppo non basta una canna per risolvere i problemi », sospira Aldo.
«Mi sa che, rispetto a noi, è Sara ad avere i problemi più grossi. Arriva. Guarda che faccia!», disse Matteo mentre con la mano indica Sara che viene verso di loro.
«Datemi una sigaretta e non chiedetemi nulla! Sono incazzata nera!»
Nemmeno il tempo di parlare e Aldo ha già pronta una sigaretta per lei. Nessuno osa fare domande, come ha chiesto lei, anche perché sanno bene che presto sarà lei a raccontare cosa è successo.
Erano giorni importanti per Sara. Riunioni del consiglio di facoltà e del senato accademico avrebbero deciso il suo futuro. Se fosse stata o meno ancora docente della facoltà di Lettere veniva deciso in quelle riunioni. C’era poco da sperare, mancava l’ufficialità ma era quasi certo che la sua materia sarebbe stata soppressa insieme a tutto il corso di laurea, dunque lei avrebbe perso la cattedra e quindi il lavoro. Insegnare le piaceva e avrebbe voluto continuare a farlo.

«Oggi c’è stato il consiglio di facoltà. Dal prossimo anno non insegnerò più. Non mi rinnoveranno il contratto», li informa perentoriamente. Aldo e Matteo non sanno cosa dire. Sanno bene quanto per lei sia difficile quel momento.
«È certo che non lo rinnoveranno? Magari c’è ancora qualche speranza…» Matteo cerca, invano, di essere ottimista.
«Saretta», interviene in maniera paternalistica Aldo, «vedrai che se non farai la professoressa qui, potrai farlo in qualche altro posto. E se non potrai fare la professoressa qualcos’altro farai. Sei brava e intelligente. Sei anche bella, quindi potresti sposare uno ricco e risolvere tutti i problemi!».
Aldo cercava di stemperare la tensione e di buttarla sul ridere. Sembrava funzionare. Un piccolo sorriso spuntò dalle labbra di Sara.
«Ma sì, qualcosa farò! Qualcosa mi inventerò!». Poi rivolgendosi a Matteo: «Tu, testa di zucchina, cerca di studiare e laurearti! Fai gli ultimi esami e scappa via. Saranno anni difficili, tasse alte e didattica scarsa. Cambia aria!»
«È quello che sto cercando di fare», le risponde Matteo.
«Ma unni finierru i sordi!», esclama Aldo. «L’università non ha soldi, u prisirenti dice che si devono fare tagli a tutto, dove sono i soldi? Iu nun capisciu chi sta succiriennu, sacciu sulu ca tutti stamu peggiu!» Quando Aldo si lasciava andare abbandonava l’italiano e si affidava al dialetto. Del resto si sforzava e parlava in italiano solo con Matteo e Sara, per il resto non lo usava mai.

Anche quella pausa pranzo stava per finire. Aldo sarebbe tornato a casa, Sara a fare lezione e ricevimento, Matteo si sarebbe spostato di poco e avrebbe studiato per tutto il pomeriggio in una panchina lì vicino.
Mentre tornava a casa Aldo pensava a Sara. Aveva sempre creduto che chi faceva il professore fosse una persona fortunata. Lavoro sicuro, ottimo stipendio e schiena sana. Da quando aveva conosciuto Sara aveva capito che non era per tutti così. C’era chi se la passava peggio dei giardinieri. Si sentiva fortunato, lui un lavoro lo aveva e gli piaceva pure. Insomma, prendersi cura della piante non era male e poi fra qualche anno sarebbe andato in pensione. Avrebbe dato riposo alla sua schiena e forse si sarebbe trasferito nel ragusano, tra gli amati carrubi. Arrivato a casa, mentre cercava le chiavi per aprire il portone, pensò che doveva fare qualcosa per Sara, per tirarle su il morale. Non avrebbe potuto cambiare la situazione, ma forse un regalo le avrebbe restituito il sorriso. Almeno per un po’.

Due giorni dopo come sempre all’ora di pranzo Aldo ha appuntamento con i suoi amici. Questa volta i due sono arrivati prima. In realtà ad arrivare prima è stata Sara, Matteo era già lì dalla mattina, studiava. I due si misero a chiacchierare in attesa che Aldo finisse e li raggiungesse. Parlavano e guardavano Aldo che lavorava. Stava finendo di potare la lavanda, per questo l’aria era molto profumata. Poco dopo era seduto accanto a loro. Aveva aperto il porta pranzo che si portava con sé per il mangiare, ma lo richiuse subito. Si alzò. Andò verso l’albero di carrubo e tornò con un piccolo vaso pieno di terra in mano.
«Per te, Sara»
«Grazie Aldo, ma cos’è? » chiese Sara.
«Ho seminato un carato, nascerà una pianta di carrubo. Si ricia caratu, giustu? Si chiama così il seme del carrubo? Me lo hai insegnato tu».
«Sì, si ricia accussì» le rispose in un dialetto zoppicante.
«Le regali un vaso con una pianta che potrebbe anche non nascere? Aldo, alle donne piacciono scarpe e gioielli e tu regali “possibili carrubi?” Ti devo spiegare un bel po’ di cose!» disse Matteo.
«Ma smettila!» fece Sara dandogli un colpo sulla nuca. «È un regalo bellissimo. Mi prenderò molta cura di questa pianta, tanto presto avrò tempo da vendere…!»

Quando Aldo non lavorava nel giardino dei novizi non vedeva i suoi due amici. Nei giorni in cui non era al monastero curava un altro giardino da qualche parte. Al contrario Matteo e Sara si incrociavano in facoltà tra una lezione e un pausa in cortile, ma preferivano i momenti in cui era presente anche Aldo.
«Novità? », chiese Matteo mentre rullava una sigaretta.
«Sì, adesso è ufficiale: non mi rinnoveranno il contratto. Dal 31 luglio sarò ufficialmente disoccupata, potrò concedermi lunghe vacanze!»
«Ti offro io del lavoro. Scrivi la mia tesi, mi costerebbe troppo?» Le chiese Matteo.
«Potrebbe accadere veramente… Magari finirò col correggere tesi e fare doposcuola ai bambini. Mi mancherà insegnare. Mi mancheranno quelle teste di cazzo che si presentano all’esame senza sapere nulla e poi mi supplicano per avere almeno un 18!»
«Se avessi figli li manderei da te per il doposcuola», intervenne Aldo. «Ma figli non ne ho, e nemmeno nipoti. Mi sa che non ti sarò utile».
«Sarebbe bello far studiare un “piccolo Aldo”, ma adesso mi tocca la lezione. Vado, ormai siamo agli sgoccioli. Presto finiranno le lezioni e farò i miei ultimi esami. Cercherò di essere più buona del solito!»
Sara si alza, prende la borsa e fa per andare. Aldo la segue. «Vado via pure io, ho da fare».
«Ci vediamo dopodomani».

I due camminano in silenzio per i corridoi e scendono in cortile. Sara si ferma davanti l’aula e saluta Aldo che fa un cenno con la mano e va verso l’uscita. Sara entra in aula, alcuni studenti sono già seduti, altri chiacchierano davanti la soglia. Le fa uno strano effetto sapere che quella è una delle sue ultime lezioni.
Aldo è arrivato alla sua auto, il parcheggiatore abusivo lo saluta. Sta per mettere in moto ma si accorge che qualcuno lo ha chiamato al cellulare. Controlla tra le ultime chiamate, è stato il suo capo. Il proprietario dell’azienda per cui lavora raramente lo chiama. Aldo riceve l’assegno mensile a casa e parla di lavoro solo col suo capo reparto, mai con il proprietario dell’azienda. È un po’ stupito. Rimugina sul perché della chiamata, si promette che una volta a casa, con calma, lo avrebbe chiamato. «Probabilmente avrà sbagliato», pensa.

Passano due giorni e Aldo è di nuovo nel giardino dei novizi. Controlla che l’impianto d’irrigazione funzioni correttamente e che l’acqua arrivi a tutte le piante. Cammina per il giardino, poi si ferma sotto l’arco metallico su cui si arrampica l’edera e comincia a potarla e a sistemarla. Aspetta i suoi amici, è scuro in volto e non sembra molto sereno. Fuma una sigaretta dopo l’altra. I due non si vedono ancora, sono in ritardo. Quando finalmente arrivano Aldo ha già finito le sigarette ed è seduto sotto il solito nespolo.

«Ciao Aldo!», lo saluta Sara mentre si siede su una pietra vicino a lui. Con lei c’è Matteo, sono arrivati insieme.
Aldo è nervoso e si vede. I due se ne accorgono subito, Matteo non fa in tempo a chiedergli se è tutto apposto che lui sbotta.
«Hanno licenziato anche me!»
Sara e Matteo sono increduli, non sanno che dire.
«Mi hanno licenziato con una telefonata! Lavoro per questa ditta anni e mi licenziano per telefono! Ma chi minchia è? Amunì o chioscu, agghiu vogghia ri birra! »

Si alza, Sara e Matteo lo seguono. Aldo non gli ha dato il tempo di fiatare, è un fiume in piena. Non chiude la bocca un attimo, si vuole sfogare. Durante tutto il tragitto per arrivare al chiosco non  smette nemmeno per un momento, parla solo lui.
Solo davanti ad una birra Sara riesce a parlargli: «Mi ‘spiace, ti capisco e posso immaginare che per te sia tutto più difficile. Ma fidati: una soluzione si troverà».
«Una soluzione?? Io un lavoro dovrei trovare, chi se lo prende un vecchio di 60 anni?» Disse Aldo guardando Matteo che beve la sua birra e non sa proprio cosa dire.
«Dai Aldo, magari cambiano idea e ti riassumono! Ma perché ti hanno licenziato?»
«Dicono che l’università non li paga da tempo, che non hanno i soldi per pagare gli stipendi e quindi devono fare dei tagli. Come lo Stato, quel cretino del mio capo fa tagli dappertutto. Scimunito
Aldo ha finito la prima birra, ne chiede un’altra, non smette un attimo di parlare.
«L’università non ha i soldi? E che ci vuole a trovarli, la prossima volta ad ottobre invece di far marcire le olive che ci sono sugli alberi in cortile me le fanno raccogliere e guadagniamo qualcosa. Mi ci paiassi ru iorna i travagghiu, fuorsi macari tri. Se poi mi danno il permesso trasformo il giardino in un orto e faccio qualche euro così!»
Aldo era molto amareggiato. Questa volta non raccontava le sue solite storie, si raccontava delle storie per cercare di ingoiare il rospo con più facilità.
Matteo e Sara sorridevano mestamente. Dopo oltre mezz’ora di parole a raffica Aldo era più calmo, aveva solo bisogno di qualcuno che lo ascoltasse. Stavolta non voleva raccontare le storie di altri ma la sua. Era un po’ più sereno.
«Che strana la vita: per anni condividiamo lo stesso giardino, ci sediamo sotto lo stesso albero per stare un po’ insieme e poi arriva il momento in cui ci tolgono tutto», pensa ad alta voce Sara.
«Beh, per Matteo non è così», dice Aldo.
«Se non potrai più fare il giardiniere che farai ?», interviene Matteo.
«Che farò? La prima cosa che farò è raccontarti un mucchio di storie per la tua testi. Chiederò a Sara di aiutarti a scriverla. Non posso pensare che presto io e Sara non lavoreremo più al monastero e tu, minchione che non sei altro, sarai ancora lì al fresco dei miei alberi. Se noi due andiamo via, presto lo dovrai fare anche tu».

Aldo aveva un forte senso dell’ironia e anche in un momento difficile riusciva a scherzare. O forse questa volta era serio?
«Ora voi fate un promessa. E la fate se vi fa piacere e non per farmi piacere», disse con un tono solenne Aldo. «Anche se non lavoreremo o studieremo al monastero una volta l’anno pranzeremo sotto il nostro nespolo».
I due sorrisero, la proposta era stravagante ma carina.
«Sei sei d’accordo Aldo», disse Matteo, «la data la facciamo scegliere a Sara, proviamo a fare i cavalieri per una volta».

Aldo lavorò fino a fine luglio, come Sara. Ad agosto cominciò ufficialmente la sua vita da disoccupato sessantenne senza grandi prospettive. Nonostante ciò lavorò con il solito impegno, curò  le piante come aveva sempre fatto fino all’ultimo giorno.
Aldo si svegliò presto per prendere il bus, quella mattina avrebbe incontrato Matteo e Sara dopo oltre un anno. L’autobus arrivò in orario, erano le sette. Lo aspettavano un paio d’ore di viaggio. Si era trasferito, era tornato in provincia di Ragusa. Aveva sempre pensato di farlo da pensionato, la perdita del lavoro aveva anticipato i tempi.

Durante tutto il viaggio ripercorse la sua vita, pensò ai momenti trascorsi con Sara e Matteo. Erano tra i pochi ricordi felici. Una lacrima gli rigò il viso, un po’ si stupì. Arrivato alla stazione, scese dall’autobus e si diresse verso il monastero. Quelle strade fino a poco tempo prima familiari ora avevano una luce diversa. Arrivò al monastero, come al solito era affollato di studenti. Percorse tutto il cortile, salì le scale fino al primo piano e percorse il corridoio fino al giardino dei novizi. Scese i tre gradini, mise i piedi su quella terra che considerava sua. Sara e Matteo erano già lì, sembravano spaesati.

Il nespolo non c’era più, al suo posto niente.

«Mi luvarru tutti cosi», sussurrò con un filo di voce senza farsi sentire. Si avvicinò ai suoi amici e prima di abbracciarli lanciò un’occhiata verso il terreno ormai vuoto. I due lo scrutavano ansiosi. Aldo esclamò: «A saperlo le nespole le compravo!»

Contenuti extra (dal blog)

Annuncio dei vincitori di Raccontare il monastero
Step1 & Zammù, dal 2004 sforniamo talenti
Raccontarono (e basta)

Durante lo scambio di mail con i primi lettori inventavo finali alternativi a quello ufficiale. Ve ne propongo uno.
alla fine del racconto si scopre che Aldo è un vampiro che lotta i testimoni di Geova. Nello scontro finale, al Barabarabeach, vincono i testimoni di Geova ma Aldo non muore. Tornerà nel sequel.
Sara è la madre di Matteo.
Matteo ha un fratello gemello che però non è figlio di Sara, ma hanno lo stesso padre.
Nella narrazione interviene Gargamella e ci prova con Sara che essendo stata lasciata dal fidanzato si butta tra le sue brutte braccia.
Alla fine si ritrovano tutti a piazza Borgo, da lì parte una navicella per un pianeta a noi sconosciuto. Devono lasciare il mondo che è stato invaso dai precari dell’università!

Questo finale è stato bocciato da tutti, ancora non mi spiego il perché. C’è un altro finale alternativo che per motivi di sicurezza nazionale non posso svelare integralmente. Posso dire che in questo ci sono docenti, studenti, cronisti di Radio Zammù e Step1 che assistono alla decapitazione dell’autore del racconto. Proprio nel momento in cui il boia sta compiere l’insano gesto intervengono la Madonna delle milizie e il Cristo risorto per salvare il giovane.

Roberto Sammito

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