Il linguaggio mafioso, dalle lettere dei campieri ai social «Non solo omertà, Cosa Nostra ha sempre comunicato»

Studiare il linguaggio mafioso per scoprire il modus operandi interno alle cosche e i metodi con cui per anni ha agito l’organizzazione criminale. È l’obiettivo di Giuseppe Paternostro, ricercatore di Linguistica italiana nel dipartimento di Scienze umanistiche dell’Università di Palermo, che a MeridioNews presenta il suo nuovo libro, Linguaggio mafioso, scritto, parlato, non detto, primo testo della collana I Saggi edito da AutAut edizioni. Grazie ai numerosi documenti raccolti, interviste, dichiarazioni, intercettazioni, appunti, lettere degli uomini di Cosa nostra, lo scrittore approfondisce lo stile comunicativo della criminalità organizzata. «Omertà non significa silenzio totale – spiega –. La mafia in realtà ha sempre comunicato, non solo col silenzio ma soprattutto con i fatti, con le parole, sia con lo scritto che col parlato. L’origine del termine mafia è abbastanza oscura, nessuna delle mafie al suo interno si classifica come tale. Giuseppe Pitrè (scrittore e antropologo palermitano morto nel 1916, ndr) ne negava l’esistenza, associando al termine il significato di bellezza, e difatti su questa cosa ci hanno giocato i mafiosi, nel mio libro sostengo provocatoriamente che la mafia è stata favorita dal suo stesso nome».

Dai pizzini di Provenzano alle lettere di scrocco. Nel suo saggio Paternostro fa un excursus storico che parte dai primi anni del ‘900 e arriva fino ai giorni nostri. «I pizzini non sono l’unico esempio di scrittura mafiosa – racconta lo scrittore – già alle origini di Cosa nostra, i proprietari di fondi costretti a pagare il pizzo ricevevano le lettere di scrocco, ovvero lettere minatorie chiamate così per la prima volta dal funzionario di polizia Antonino Cutrera, a inizio ‘900, caratterizzate da un italiano fortemente sicilianizzato e concepite per comunicare con l’esterno. 

Altro esempio di linguaggio scritto e parlato – continua – è il famoso comunicato letto in aula da Giovanni Bontate, fratello di Stefano, in cui evidenziava l’estraneità di Cosa nostra dall’uccisione del piccolo Claudio Domino, ammettendo implicitamente l’esistenza dell’organizzazione. Difatti quella ammissione gli è costata la vita». Il professore sostiene che oggi «i mafiosi, non potendo ammettere di essere tali, per difendersi sono costretti a ricorrere a equilibrismi linguistici in modo da dare diversi significati ai loro messaggi e smentire eventuali interpretazioni errate». 

Paternostro passa in rassegna anche il linguaggio adottato dai figli dei boss Provenzano e Riina. «Anche loro si sono mossi su questa linea: da una parte dicono di non avere a che fare col mondo dei loro padri, dall’altra è come se chiedessero all’organizzazione di lasciarli fuori dai giochi, in cambio loro non rinnegano niente e non si pentono. Anche Maria Concetta Riina lavora su questo dire e non dire, perché dopo le polemiche sulla famosa immagine del dito che chiede silenzio – ricorda lo scrittore – che poteva essere letta come omertà o come rispetto per i morti, è dovuta intervenire per spiegare appunto che non si trattava di una minaccia di tipo mafioso, ma soltanto della richiesta di rispettare il suo dolore, e ancora una volta ha utilizzato l’aggettivo mafioso. Un termine che fa comodo ai mafiosi stessi perché le parole mafia/mafioso sono un nome dato dall’esterno. Le uniche che loro usano sono Cosa nostra. Quindi il termine mafia può essere usato tranquillamente perché non è un tabù. In altri termini, non vi si riconoscono». 

In ogni caso, secondo il ricercatore, Cosa nostra «giudica il comportamento di ogni mossa comunicativa compiuta in pubblico da un uomo d’onore» e strumenti come i social network non rappresentano un limite ma anzi «una cassa di risonanza che permette di mantenere il controllo del territorio e godere del consenso popolare».

Danilo Daquino

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