Il lato oscuro del Salone

La vetrina annuale che mette in mostra le dodici facoltà dell’Ateneo catanese ha – tra i suoi pregi – anche qualche difetto.

Primo tra tutti, e abbastanza rilevante in un periodo di crisi per tutte le università italiane, è il fattore economico. Ciascuna delle facoltà, infatti, paga una quota che si aggira sui 3.000 euro per avere un proprio spazio espositivo. A questi costi si aggiungono quelli relativi al materiale informativo, quasi totalmente cartaceo, distribuito agli studenti: dèpliant, foglietti, cartoline e poster recanti informazioni, suddivisione dei corsi di studi e tutto ciò che può essere utile per un primo orientamento nel mondo universitario.

Inoltre non bisogna dimenticare la voce “gadget” nel bilancio di ciascuna delle facoltà. Magliette, portachiavi, spillette e quant’altro rechi impressi loghi e nomi di corsi di laurea hanno chiaramente un determinato costo sostenuto dai “committenti”. Ultima, ma non per importanza, è la spesa relativa ai pasti offerti a professori e ragazzi che si sono occupati degli stand. L’unica cosa gratuita è stata la presenza degli studenti che svolgono ogni anno per questa occasione il ruolo di tutor.

In secondo luogo bisogna un po’ riflettere sui destinatari del Salone, gli studenti del quinto anno delle circa 400 scuole superiori di Catania e provincia. Tra le migliaia di giovani che si sono riversati per quattro giorni nel centro fieristico delle Ciminiere, ovviamente non tutti avevano la seria intenzione di iscriversi all’Ateneo catanese. I maturandi davvero interessati che hanno sfruttato l’occasione per orientarsi nel dedalo delle offerte formative sono ogni anno sempre pochi. Infatti, coloro i quali sono intenzionati a proseguire gli studi con un percorso accademico hanno già un minimo di “lessico” (conoscono almeno l’acronimo cfu) e un interesse – seppur minimo – per una determinata area di studi. Ovviamente non tutti si rivolgono allo stand di Lingue chiedendo: «È questa la facoltà di inglese?».

La maggior parte degli studenti sfrutta la visita al Salone come un’occasione per perdere un giorno di scuola (come loro stessi ammettono) e trasformarsi in abilissimi cacciatori di gadget. Basti pensare che lo stand più gettonato e pressoché preso d’assalto è stato quello di una web-community che – in cambio dell’iscrizione ad un sito – ha riempito migliaia di zainetti con prodotti di vario genere (dai rasoi ai segnalibri, dagli shampoo alle gomme da masticare).
Emblematico è anche l’esempio della professoressa di liceo che ha chiesto una dozzina di magliette «per gli studenti più meritevoli» e che dopo averne ottenuta una si è rivolta alle colleghe esclamando (in un misto tra italiano e siciliano): «U viriti comu s’ava a fari? Iu cussì mi ni pigghiai n’saccu di maglietti!».

Intanto all’esterno delle Ciminiere il tappeto di opuscoli e materiale informativo di vario genere si allarga progressivamente ed è solo grazie al continuo lavoro del personale ausiliario che questa marea cartacea non invade anche l’interno.

È fuori di dubbio che debbano esserci momenti di incontro tra le potenziali matricole e le facoltà e che il Salone rappresenti anche un momento unico di scambio tra gli studenti, ma forse si potrebbero cercare soluzioni meno dispendiose e più mirate e produttive. 

Carmen Valisano

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