Il Garante: «I tagli fanno male al Sud»

Emilio Giardina, il nuovo Garante d’Ateneo, succeduto al prof. Mario Andolina, mi accoglie nel suo studio presso la facoltà di Economia della quale è stato preside per un trentennio. Pochi mesi fa lo avevo incontrato per le mie ricerche sulla tesi di laurea, ottenendo una lunga intervista sulla storia recente dell’ateneo. Adesso mi ripresento nelle vesti di redattrice di Step1. Il professore, uno dei grandi “dinosauri” della nostra università, è come al solito affabile e curioso nei confronti della realtà studentesca. Un anno fa, in occasione della presentazione dei suoi «Scritti scelti», aveva regalato a Step1 un pezzo del suo discorso di congedo. 
Gli chiedo se prenderà la tessera di Upress, la nuova associazione studentesca a sostegno della stampa universitaria. Mi dice di lasciargli gli estremi del nostro conto corrente. E mi ricorda che, prima si iniziare la sua carriera di docente (nel 1956 appena laureato), da studente universitario fu Presidente del CUS, il centro sportivo universitario ed ebbe un ruolo nel suo riconoscimento da parte dell’ateneo.
 
Professor Giardina, dopo quasi sessanta anni di carriera universitaria, come raccoglie questa nuova sfida?
È un incarico molto prestigioso che mi gratifica notevolmente, anche perché mi consente di continuare ad appartenere alla comunità universitaria in maniera più intensa di quanto non possa avvenire con l’incarico di insegnamento che la facoltà di Economia benevolmente mi concede ogni anno.
 
Quali sono le finalità di questa figura istituzionale e con quali strumenti opera?
Io credo che per capire bene la funzione di un garante dell’università bisogna inquadrare questa figura nell’architettura complessiva degli organi dell’ateneo. Dalle riforme degli anni ’90, tutte le componenti universitarie sono rappresentate negli organi decisionali: gli studenti, il personale tecnico amministrativo, il personale docente che non è arrivato ai vertici della carriera diventando professore di ruolo. La funzione del garante si inserisce in questo quadro all’interno del quale esistono canali di tutela delle parti più deboli. Questa figura però non ha poteri decisionali, è un organo di persuasione. Poi nel nostro regolamento sembrerebbe addirittura che possa operare solo su istanza di parte. In altri statuti è invece previsto che possa farlo anche d’ufficio. Questo è un punto da dirimere e nella prima fase dell’esercizio del mio ruolo sto cercando di approfondire questo aspetto con riferimento alle prassi che si sono instaurate, anche se la prassi è molto limitata nel tempo.
 
A proposito di tutela dei più deboli: alla luce del caso Rossitto, come possono gli studenti difendersi dagli abusi di alcuni professori? Gli strumenti già esistenti sono di per sé sufficienti o vanno rinforzati?
A mio avviso gli strumenti dovrebbero essere sufficienti. Perché abbiamo i rappresentanti degli studenti in tutti gli organi decisionali, abbiamo il Garante d’Ateneo, abbiamo la Commissione di pari opportunità, è in elaborazione il codice etico dell’Ateneo. Quindi in astratto gli strumenti ci sono. Tuttavia quando parliamo degli abusi, bisogna tenere in considerazione che le vittime spesso hanno una remora a denunziarli, perché la denuncia li mette a rischio in un modo o nell’altro (vedi i meccanismi di difesa dalle accuse). Forse da qualche parte c’è stata anche una certa sordità nei confronti di qualche denuncia che era stata fatta in maniera informale. Gli organi responsabili dovrebbero essere più sensibili. Poi bisogna che si crei un clima di fiducia verso gli organi che devono intervenire a tutela, a cominciare dal Garante. Io ho in programma di incontrare la consulta degli studenti per illustrare qual è il mio compito e per dire che non ho nessuna remora ad intervenire in casi di questo genere. Anche se è chiaro che vi sono le difficoltà della raccolta della prova, questo non lo possiamo trascurare, non basta una mormorazione. Comunque nel caso Rossitto l’intervento dell’Ateneo è stato immediato, rapido ed esemplare. Altre volte per altri casi di violazione di comportamenti deontologici si è perso tempo. Ma non erano di questa gravità.
 
Cambiamo argomento: la riforma Gelmini cambierà l’idea che comunemente si ha di università. Per rispettare i criteri previsti, l’Università di Catania perderà almeno tremila studenti. Qual è il suo pensiero, da docente di lunga esperienza?
Sono un po’ critico. Non perché non condivida gli obiettivi di imprimere maggiore efficienza agli atenei, di garantire maggiore riconoscimento del merito degli studenti, dei laureati e dei professori. Sono però preoccupato del fatto che si trascuri un altro aspetto del problema universitario. Noto una grossa lacuna nell’intervento governativo che riguarda le aree più deboli del Paese. In Italia abbiamo una percentuale di giovani iscritti e di giovani laureati alquanto inferiore a quella dei Paesi che hanno il nostro stesso grado di sviluppo economico. Significa che l’attività formativa è insufficiente. E non vale l’obiezione, che qualcuno fa, “già oggi i laureati hanno difficoltà a trovare uno sbocco professionale, se accresciamo il numero dei laureati accresciamo il problema della loro disoccupazione”. Mi sembra che il problema non possa assolutamente impostarsi in questi termini, ma si dovrebbe operare su entrambi i versanti. E questo problema riguarda soprattutto il Sud.
 
Dinanzi ai provvedimenti della Gelmini tutte le università sembrano sulla difensiva. Che fare a Catania?
Il governo ha proceduto a tagli ingenti del FFO (fondo di finanziamento ordinario). Si prevede che l’Università di Catania, per quanto riguarda le risorse disponibili dopo il pagamento degli stipendi al personale docente e tecnico-amministrativo nei ruoli dell’ateneo, subirà una decurtazione del 30% rispetto all’anno precedente. Dove si può tagliare? Sicuramente negli sprechi, ammesso che ci siano. Nell’obiettivo della maggiore efficienza, riallocando le risorse lì dove il risultato può essere migliore, riducendole dove c’è un eccesso di impiego delle medesime. Questo, è vero, non sarà sufficiente a mantenere la qualità dell’insegnamento (quale essa sia) che si aveva in passato. E io temo fortemente che verranno tagliati alcuni servizi che a mio avviso sono essenziali per consentire agli studenti di entrare nell’università con piena consapevolezza delle loro possibilità. Mi riferisco all’accoglienza e ai corsi di riqualificazione rispetto all’istruzione della scuola media superiore o di preparazione alle facoltà. Poiché sono corsi tenuti da personale precario, sarà questo il luogo dove si interverrà più a fondo nei tagli. Stessa cosa per i tutorati, attivi in particolare per le materie scientifico-matematiche. Si immagini quale sarà il decadimento nella formazione che ne conseguirà. Sono molto preoccupato perché questo avverrà con maggiore incisione negativa nelle università meridionali.
 
Le prime vittime sono gli studenti e soprattutto, nel nostro Ateneo, quelli delle sedi decentrate…
Un dato che mi ha sempre impressionato è quello collegato proprio all’apertura di nuove sedi sul territorio: si è registrato immediatamente un incremento dell’immatricolazione degli studenti. Questo aumento chiaramente ha una relazione di causa-effetto con la dislocazione nel territorio. Io lo interpreto come l’esistenza di una domanda latente di istruzione universitaria che per le condizioni economiche delle famiglie degli studenti non trovava la possibilità di tradursi in domanda effettiva. Ora noi in relazione ai più rigorosi requisiti richiesti dagli interventi ministeriali, siamo costretti a respingere tremila studenti. Cosa fanno questi aspiranti studenti? Sono in condizione di iscriversi in altre università? Dove dovrebbero andare? A Enna? Perché Palermo e Messina sono nella stessa condizione…
Il modello di università che si vuole costruire è quello di una università efficiente, che premia il merito. Encomiabile obbiettivo, ripeto. Ma lo si deve accompagnare con consistenti interventi di carattere sociale che permettano alle famiglie meno abbienti di poter mandare i propri figli all’università.
Questo è un problema di cui il governo dovrebbe farsi carico. Naturalmente verranno accresciute, dicono fonti ministeriali, altre forme di intervento quali borse di studio e case dello studente. Ma l’intervento resta insufficiente, come dimostra il fatto che noi non possiamo accogliere tremila studenti…
 
Le vittime di questa riforma non saranno però solo gli studenti, ma anche i docenti precari… Inoltre, non trova che impedendo ai giovani di accedere all’insegnamento, il problema del ricambio classe docente viene solo rinviato?
Nel momento in cui si richiede un requisito minimo di docenti strutturati, già in ruolo, e quindi si riducono i corsi che difettano di questo rapporto, chi ci va di mezzo? Non gli strutturati, ma i precari! Poi… quanti anni sono che non si fanno concorsi? Questo è il problema. È previsto che ci sarà un grosso buco e si sono tagliate le risorse. Sul piano della ricerca scientifica l’Italia investe meno dell’1% del Pil. La Francia, la Germania, i paesi con cui concorriamo, si avvicinano al 3%. D’altra parte, è dimostrato da studi di carattere economico che il fattore principale dello sviluppo economico è l’innovazione, la ricerca, la formazione, che hanno il loro luogo istituzionale di cultura nell’università.
 
Qual è la sua ricetta?
L’Ateneo farà salti mortali con questa riduzione del 30%. Ma l’università come istituzione può fare poco, perché non si autoalimenta. È il governo che dovrebbe porre come obiettivo principale quello dell’accrescimento delle risorse nella formazione universitaria e in ricerca. E distinguere i due obiettivi: quello di efficienza e il soddisfacimento della domanda latente nelle cosiddette zone a sviluppo ritardato. Uno degli esiti negativi è che i nostri dottorandi fanno concorsi per fare ricerca fuori. Non c’è niente di strano, ma noi ci depauperiamo dei nostri studenti più valorosi…

Silvia Lo Re

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