Il Digio: l’aggressione, il coma e il ritorno alla vita «Ricordo tutto di quel giorno, poi è il buio totale»

«È stata una favola, mettiamola così». Lo è stata davvero, a pensarci bene, la storia di Gianluca Di Gioia, per tutti ormai solo Il Digio, e forse nemmeno i fratelli Grimm avrebbero saputo immaginare un intreccio simile. Partito l’estate scorsa alla volta di un viaggio in solitaria, ha attraversato il cosiddetto triangolo d’oro asiatico. Fino al Laos, dove il suo viaggio ha preso inaspettatamente una piega drammatica. «Ero già stato in Malesia e in Thailandia nel 2015 per una vacanza all’insegna di natura e mare. Ma questa volta volevo che fosse diversa, più consumata sulla strada», racconta. E di chilometri, in quell’agosto bollente, ne macina parecchio, spostandosi per lo più a piedi. «Per fortuna o purtroppo non sono uno a cui piacciono i viaggi comodi con pinne e ombrelloni – spiega -. Preferisco i percorsi non ancora battuti. Viaggiare è un modo per aprire la mente, i viaggi che uno fa, tra i migliori libri da leggere, devono portare a qualcosa, alla fine».

«Se cambia il mio modo di viaggiare e di concepire il viaggio, ho perso davvero tutto». E sono mesi, ormai, che questo 36enne di Venegono (Varese) originario di Caltavuturo, prova a riappropriarsi di questo pensiero. Ci prova da quando ha ripreso conoscenza e ripercorso a ritroso il suo ultimo viaggio. Fino a quella improvvisa battuta d’arresto nel Laos. «Ricordo benissimo quell’ultimo giorno, il 23 agosto. La strada che ho fatto per arrivare in centro, l’incontro con dei ragazzini inglesi, i miei ricordi ci sono fino a quando sono stato vigile – dice -. Poi è il buio totale». Le analisi cliniche che gli fanno prima e durante il ricovero dicono tutte la stessa cosa: Gianluca è stato avvelenato, difficile stabilire se con un veleno vero e proprio o con degli oppiacei. Chi lo droga, aspetta con pazienza che lui perda completamente i sensi per poterlo derubare di tutto, per lasciarlo poi svenuto per strada, sotto la pioggia battente di quel giorno d’estate.

«Da quando mi sono risvegliato c’ho pensato e ripensato. A dire il vero, non c’è un giorno che non ci pensi, a quello che potrebbe essere successo – confida -. L’ipotesi è che qualcuno possa avermi notato, aver visto che viaggiavo da solo e che ero socievole, alla mano». Una preda facile, insomma. Per non parlare del fatto che la zona in cui viene aggredito e abbandonato rappresenta il secondo mercato al mondo per la produzione di droga. Solo alcuni giorni prima era stato nella sua Sicilia per un matrimonio. «In molti mi hanno rimproverato il non aver fatto l’assicurazione – continua -. Ricordo che provai, ma quelle online non mi convincevano. E poi, non era la prima volta che partivo da solo per andare oltreoceano». I ricordi, quelli che restano ancora nitidi nella sua memoria, sono per fortuna tutti bellissimi, intensi. Come i due giorni trascorsi dentro a una foresta, a contatto con le comunità del luogo che vivono isolate. E il percorso con gli elefanti, la gente incontrata lungo il cammino, gli attraversamenti via fiume per raggiungere quel maledetto Laos, «lo spartiacque del mio viaggio».

Un posto, lo scopre solo al suo risveglio in clinica, famoso per l’impressionante numero di stranieri morti o scomparsi lì. «Ci sono almeno 30-40 casi documentati solo nella città dove hanno ritrovato me». Adesso, però, quel momento è finalmente lontano. Ma ancora non del tutto chiaro, e per niente assimilato. Fisicamente sta bene, ma le ferite rimaste aperte non sono certo quelle del corpo. «Mi è stata portata via una parte di me. Sto provando a scrivere quello che è successo, mettere tutto nero su bianco, con i suoi pericoli e il suo lieto fine, per prendere pienamente coscienza, per esorcizzare, per andare avanti insomma». La voglia di viaggiare, intanto, non sembra essergli passata. Anche se il consiglio di terapisti e psicologi è quello, per il momento, di restare a casa. «Sono cose, queste, che inevitabilmente ti cambiano – racconta ancora -. Non sono arrabbiato con nessuno, nemmeno con gli aggressori che si sono approfittati della mia situazione, i malintenzionati ci sono ovunque. Queste persone però hanno portato via un pezzo di me e della mia vita che difficilmente mi sarà ridato. Si sono presi, almeno per ora, la fiducia nella gente, il riuscire a parlare ancora con le persone, il credere che ci sia del buono in tutti. Non so come affronterò il prossimo viaggio, se avrò paura o meno delle persone, lo saprò solo col tempo».

Intanto, ad aggiungere una nota positiva a questa storia comunque a lieto fine, è stata anche la solidarietà arrivata dagli utenti del web, che hanno seguito con apprensione e preoccupazione gli sviluppi della vicenda, già a pochi giorni dall’aggressione. Lo hanno fatto grazie a un gruppo pubblico creato su Facebook dagli amici più stretti di Gianluca, per raccontare quanto successo e chiedere un aiuto economico per sostenere le prime delicatissime cure somministrate nella clinica di Udon Thani. «Non mi sarei mai aspettato una cosa del genere, è stato ed è bellissimo». Sì, perché nessuno, ad oggi, ha smesso di interessarsi a lui e alla sua ripresa. Ed è proprio a partire da quello che, ormai, non è più solo un gruppo social ma una comunità, una piccola famiglia, che Gianluca ha trovato l’ispirazione forse più grande per alcuni progetti futuri che gli permetteranno, una volta e per tutte, di imparare finalmente a convivere con quella parentesi di buio che rimane il suo 23 agosto 2017

Silvia Buffa

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