Il cucchiaio nelle orecchie/ E se in Sicilia rilanciassimo il turismo sessuale?

Sono a piazza Indipendenza e non capisco. C’è come di solito un po’ di sciopero, un po’ di bar, un po’ di turisti, un po’ di villeggianti neri alla fermata dell’autobus, tanti vecchi che giocano a carte e tanti alberi soli. Scelgo il bar per capire meglio e mi scivolano in testa questi ‘versi’ del luglio 1959 di Ennio Flaiano. “A un tavolo di Rosati, in una di quelle rapide presentazioni in cui non si capisce niente, ma si sorride, ho conosciuto una signora americana asciutta, abbronzata, snella, con qualcosa di coleottero nello sguardo e nell’abito verde cangiante. Tale sensazione si è precisata meglio quando l’amico – con quel tono di gravità che redime il pettegolezzo di certi raccontini – mi ha detto che questa signora ogni anno si fa le sue vacanze sessuali in Francia e in Italia, tre mesi, pienamente d’accordo col marito. Sembra che gliel’abbia ordinato il suo psicanalista. Costei sceglie dunque i suoi uomini sorretta dalla fede di guarire, Nella borsa ha una piccola macchina fotografica e con questa ritrae prima o dopo i suoi soggetti, di preferenza nudi. Si documenta come può. Ha ormai un archivio, che forse le serve per ingannare la noia dei mesi invernali, quando la cura è sospesa. Ma io penso che quest’archivio rappresenti il tributo che ella paga al culto moderno che fa di ogni turista un fotografo preoccupato di raccogliere testimonianze della sua stessa vita (per avere la certezza di avere vissuto).”

Wilhelm von Gloeden a Taormina fotograva i suoi drudi per avere certezza di avere vissuto, di avere amato. Come Goethe, è stato, né più nè meno, un turista consecutivo. Quella Sicilia era la loro, non la nostra che la abitiamo e viviamo con solare indifferenza. Ma la Sicilia che fotografano in fila le file di turisti, oggi davanti il mio tavolinetto sbocconcellato e scacazzato dai piccioni, di chi è, per chi è? Si ricorda la vita fotografando il palazzo dei Normanni, la cappella Palatina, l’ingresso di palazzo d’Orleans? Le stesse immagini girano in tempo reale nella Val Bembrana, a Wansee, a Kyoto, sbocciano su Google Hearth come altrettanti anonimi testimoni di un falso viaggio, di un viaggio non vissuto. La vita la si ricorderebbe meglio pescando, nelle vecchie scatole da scarpe o nelle indistruttibili vaschette Moplen, le figurine Panini o le Alfa Romeo in scala della Mebetoys. Che resta della certezza di avere vissuto se non si è offerto il corpo, se non si è esposto il proprio corpo alle calamità naturali del territorio. Se vai a Cerda e divori un panino al wurstel perché diavolo vieni a Cerda? Non sarebbe meglio masticare l’acciaio della Rhur anziché strascinare coi denti la polpa dei carciofi siciliani? Ho accanto una signora a cui racconto che bisogna fotografare i volti, le foglie che cominciano a cadere, le sporcizie di una città così diversamente colorata anche sotto la sede del Parlamento. Non capisce (forse a causa del mio pessimo inglese forse perché oggi, maledizione, ho dimenticato di palestrarmi), anzi, a un certo punto si convince che il mio scopo sia solo quello di importunarla e mi molla uno schiaffo. Bisognerebbe dunque installare un check-point nelle nostre principali città siciliane: che obblighi chi entra a una ragionevole tassa di ingresso-soggiorno e non consenta l’uscita senza una ricevuta che attesti il passaggio, chessò, almeno da una piccola casa d’appuntamento nostrana. Questo per la Sicilia e per chi della Sicilia conservi il ricordo di averci, anche se per poco tempo, vissuto. Il cameriere intanto non arriva.

 

 

 

Francesco Gambaro

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