Il corpo altrove

Nell’anno europeo per il dialogo interculturale: maschilità e femminilità, due mondi a confronto e due modi differenti di percepire “l’io” e “l’altro”. La violenza il più delle volte si inserisce in mezzo. La rassegna cinematografica Il corpo altrove, con performance-video e letture, ha avuto come tema la violenza su donne e minori dando spunto ancora una volta a dibattiti e riflessioni. Perché affidare alla filmografia e all’arte “il ruolo di strumento comunicativo di tematiche sociali permette di continuare a parlarne, aprendo sempre di più lo spiraglio sulla percezione della violenza” affermano le responsabili del progetto.

Si è parlato di storie di violenza: dallo stupro e dall’omicidio, alle percosse e alla negazione della libertà, sino alle manifestazioni di disprezzo del corpo femminile. In tutti i film è il corpo della donna il “luogo” su cui agire forzatamente, da cui definire i rapporti di potere e di dominio in un modello asimmetrico di relazione tra i generi. Il percorso de Il corpo altrove ha altresì proposto una riflessione sulla violenza (di tipo simmetrico e competitivo) tra maschi, attuata per esempio tra commilitoni, ma anche nelle scuole, per strada…

La rassegna si è conclusa con la proiezione del film Il vestito da sposa, scritto e diretto da Fiorella Infascelli, in cui la protagonista sta per sposarsi appunto. Una sera, però, viene stuprata da quattro cacciatori a viso coperto. Il suo fidanzato non vuole nemmeno che lei denunci lo stupro, da lì tutto cambia… E così che Il vestito da sposa denuncia una desolante impossibilità di un rapporto felice, o meglio normale, tra uomo e donna, ma non giustifica il rapporto di causa-effetto che scaturisce dalle loro azioni.

Prima di questa proiezione uno studente ha dato voce al testo “Il fodero e la spada” del docente agrigentino nonché pedagogista Giuseppe Burgio. Eccone alcuni frammenti: “La maschilità ha creato un’alleanza storica non solo con la guerra, ma con la violenza in generale…. Se da un lato sembra esserci una responsabilità maschile complice della violenza, in tutte le sue forme: da psicologiche a fisiche, da sessuali a belliche; appare dall’altro lato poco convincente una spiegazione essenzialista. Primo perché ci sono anche donne violente e poi come ricorda Pollack “non è ancora stato riscontrato un collegamento scientifico tra mascolinità e aggressività“. Piuttosto sembra che ci sia un legame tra maschilità e violenza come risultato della costruzione sociale dell’identità maschile, in un’ottica bio-psico-sociologica.  
 
La guerra e le altre attività monopolizzate dai maschi, servono a definire la virilità stessa. Il “vero uomo” – continua a leggere Condorelli – è colui che sottomette qualcun altro, estromettendolo dal campo della virilità, trattandolo da “femminuccia” (l’insulto più temuto nella palestra della scuola come nel campo dell’addestramento militare) come gli è stato insegnato a fare – rilevato sempre dagli studi di Pollack – in un codice prettamente maschile, in cui i giovani (e non solo) devono ‹‹mostrare›› l’eroismo, l’aggressività e la rabbia e ‹‹nascondere›› i lati affettuosi, gentili e vulnerabili, considerati femminili… Vivendo in una vera e propria fobia della vergogna: tutto ciò è una forma di analfabetismo emotivo. Ma se il maschile contempla la violenza (e l’aggressività), significa allora che conosce la non-violenza…“. Se questa ipotesi è corretta, parlare di diritti umani e di pace significa anche chiedersi se è possibile dare un’altra educazione, nell’accezione socioculturale, ai maschi “analfabeti” che ricodifichi simbolicamente la virilità e i suoi miti (uomini sono anche Ghandi, Capitini e Galtung, non solo Napoleone, Hitler e Rambo) attraverso una maschilità che non si vergogni di riconoscere come proprie anche la cura, la relazionalità e la mitezza.

 

Contatti utili: www.thamaia.org
Centro antiviolenza tel. 095-7223990 oppure digita il numero gratuito 1522

Stefania Oliveri

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