L’ultima parte della prima conversazione sull’asse Cambridge-Catania si era conclusa con un interrogativo dell’ accademica di formazione britannica: “la proposta di razionalizzazione (virtuosa) di facoltà e dipartimenti proposta nel ddl Gelmini non si trasformerà di fatto in un deleterio rinsecchimento di insegnamenti e cattedre, più o meno come è accaduto nelle scuole con la soppressione del tempo pieno e l’accorpamento delle classi?” Il risultato – paventa la prof. Tribulato – è che i giovani avranno ancor meno possibilità di aspirare a un posto all’università. Ripartiamo dalla risposta del prof. Granozzi a questo quesito.
Luciano: La parola chiave è l’inciso varie volte ripetuto e poi messo a suggello dell’intero ddl: “Dall’attuazione delle disposizioni della presente legge non devono derivare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”. E’ quasi un giuramento di fedeltà al ministro Tremonti, una dichiarazione di fede, è grottesco. Si vuole riformare l’intera università senza spendere un centesimo? A me sembra il punto essenziale. E non solo a me: il direttore della Normale di Pisa si sta dannando scrivendo articoli su articoli per farsi ascoltare. Ma nelle riunioni dei precari si leggono i comunicati sindacali e non si presta nessuna attenzione agli interventi di Salvatore Settis.
Olga: Già. Come indignarsi per il bullismo e gli errori di grammatica degli alunni italiani e poi pretendere che possano imparare qualcosa in classi di 32 studenti con insegnanti che non sono quasi mai di ruolo e sono frustrati fino all’inverosimile!
Luciano: Cara Olga, come ti dicevo, mi sto limitando a selezionare e a riproporre il filo di ragionamenti che circolano all’interno dei forum accademici, ad esempio quello della Società italiana di Storia contemporanea di cui faccio parte. Non mi va di fare i nomi dei colleghi al di fuori di quel contesto. Ma il ragionamento di alcuni è più o meno questo: “Non possiamo fare a meno di considerare che la legge Gelmini è legge di questo governo”. Senza voler fare gli antiberlusconiani ad oltranza, sappiamo che questo governo non punta al futuro, semmai consuma il futuro per gestire l’oggi, un oggi sempre più legato alla sorte del leader. Ne consegue che sono “urgenti” solo le riforme che interessano il capo del governo. Quelle che non gli interessano affatto potranno passare purché siano “senza oneri”. E’ facile rendersi conto che archivi, musei, patrimonio artistico e ambientale, etc, l’intero settore della cultura, e al suo interno l’università e la ricerca, interessa assai poco la nostra classe dirigente ed è fuori dall’orizzonte mentale del preteso efficientismo di stampo manageriale. Anche in questo Berlusconi è in sintonia col Paese, con un’intera classe dirigente, di destra e di sinistra, che non ha mai avuto un progetto per l’università. Per questi motivi è possibile avere una riforma Gelmini, purché senza oneri, a costo zero. A questa condizione la riforma potrà forse andare avanti. Per di più essa ha un che di antisessantottino e soprattutto di punitivo verso i “baroni” che piace agli elettori di centro-destra e che può inserirsi come un cuneo traendo alimento anche dalle denunce provenienti dalla generazione dei trenta-quarantenni tagliati fuori dall’università a dispetto dei loro meriti scientifici o almeno delle loro potenzialità. Sull’altro lato della barricata c’è il clamore delle opposizioni: antiautoritaria da un lato e antiprivatistica dall’altro. L’attuale “movimento” degli studenti impressiona per la sua mancanza di autonomia, per l’incapacità di discutere e pensare che si incarna nelle parole d’ordine più ovvie e trite sull’autoritarismo e sulla difesa della scuola pubblica. Ho un’altra preoccupazione: la scarsa lungimiranza politica della sinistra riformista, troppo dominata dagli economisti. Costoro non hanno tratto nessuna lezione dagli esiti perversi della riforma voluta da Berlinguer. Ad esempio il ruolo innovatore svolto dalla “valutazione” potrebbe essere del tutto svuotato o distorto dall’adozione di tempi e procedure insensate, che ad esempio trasferissero anche sulle discipline umanistiche le stesse tecniche di valutazione vigenti nelle scienze dure, una questione che non riguarda solo l’impact factor. Ti chiedo che dibattito c’è stato a riguardo in Gran Bretagna.
Olga: L’idea di introdurre un sistema di valutazione della ricerca mi sembra naturalmente uno dei punti positivi del ddl. Se ne parla già da tempo, d’altronde (come da tempo si auspica un sistema di concorsi non pilotati). Anche in questo caso, temo che più che il legislatore sia importante la cultura di base. Mi chiedo se l’italica arte di arraggiarsi non troverà un mezzo per raggirare anche il controllo sulla qualità della ricerca, come si sono trovati i mezzi per piazzare a posti di ricercatore persone che non hanno neppure una pubblicazione di buon livello. Inoltre, il ddl auspica la creazione di questo sistema di controllo, ma non sappiamo ancora come funzionerà. Inutile spiegare che anche in UK, dove c’è il Research Assessment Exercise ogni cinque anni, non sono tutte rose e fiori. Il RAE funziona così: ogni dipartimento presenta un numero massimo di pubblicazioni, che poi vengono valutate da una commissione di accademici (di area e non di area), i quali alla fine danno dei voti ai singoli individui (ad esempio quello che io ho prodotto) e al dipartimento nel suo complesso. Si va da un minimo di 1 a un massimo di 5*. Dal RAE dipende la competività nazionale e internazionale del dipartimento, nonché il tipo di fondi ai quali può aspirare. La cosa interessante è che i dipartimenti concorrono in modo indipendente: per dire, Lettere può essere valutata 5* e avere un sacco di soldi, mentre Scienze Politiche può essere valutata 2 all’interno della stessa università. In teoria tutto bene, in pratica non tanto. Innanzitutto, il turn-over di cinque anni impone ritmi di ricerca talvolta bestiali e fa sì che già due anni prima del RAE le case editrici siano letteralmente bloccate dalla pubblicazione di tutti i libri che devono uscire prima della scadenza. Al di là di tali questioni di dettaglio, gli umanisti – come prevedevi tu – si lamentano che il sistema e la sua tempistica sono stati creati su misura per le Scienze, dove le pubblicazioni importanti sono di solito articoli che vedono la luce molto in fretta; mentre nell’area umanistica i tempi sia di ricerca che di pubblicazione sono lunghissimi. Il risultato, almeno secondo il mio punto di vista, è la proliferazione di libri “facili” che si possono scrivere e pubblicare in un paio di anni, e la progressiva scomparsa di quel tipo di ricerca che ha fatto grande il nostro campo di studi: quella che va avanti per anni (magari in un archivio) e che produce un’opera monumentale. Mi sono dilungata in questi dettagli per far capire quali sono i rischi di un sistema unicamente basato sull’output di ricerca calcolato in forma di pubblicazioni. Inoltre, il RAE non è infallibile. Qualche anno fa volevano chiudere (chiudere!) Architettura a Cambridge perché aveva prodotto poca ricerca. Ma si tratta di un dipartimento storico, che ha un ruolo importante in quell’area disciplinare dell’università: l’efficienza degli ultimi cinque anni non può essere l’unico criterio di valutazione (alla fine infatti Architettura è stata salvata: ma hanno dovuto fare le barricate).
Luciano: Non dimentichiamo che, nel testo di legge che stiamo considerando, la revisione dei criteri di valutazione è affidata a a regolamenti e decreti attuativi non meglio precisati. La distribuzione dei finanziamenti sulla base della performance delle università è considerato l’aspetto più innovativo del testo. In teoria, se i finanziamenti dipendono dai risultati della ricerca, le università sono costrette ad assumere docenti bravi, indipendentemente dai meccanismi di reclutamento. In pratica ciò dipende da molti parametri. Chi e come valuta la performance della ricerca? Quale percentuale verrà distribuita sulla base della performance? Se fosse troppo alta scoppierebbe una rivolta! Cosa succederà alle università peggiori e cosa si può fare per spingerle a migliorarsi? E a questo proposito si ripropone la questione Nord-Sud. Tutto ciò sarebbe – sempre in teoria – possibile attraverso degli incentivi. Diventa difficilissimo, o addirittura perverso, attraverso i tagli. La pretesa di fare una riforma a costo zero rischia di rendere inefficace la valutazione. Non si può comandare “Siate meritocratici!” senza investimenti nella ricerca.
A sabato, con la terza e ultima puntata delle conversazioni gelminiane, che affronterà il tema dell’autonomia dell’università e il problema della governance.
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