Il centro Lia Pipitone, l’eredità di una donna libera  Si aspetta ancora giustizia: «Sentenza entro l’anno»

Oltre quattro anni fa, il 2 febbraio 2013, a Palermo è nato il centro anti-violenza dedicato a Lia Pipitone, uccisa perché voleva essere libera, perché si ribellava allo stile di vita imposto dalla mafia. Ieri, per i 34 anni dalla sua morte, il centro a lei intitolato, che sorge in un bene confiscato a cosa nostra, e in particolare allo zio di Lia Tommaso Cannella, è stato teatro di un dibattito sul tema della violenza sulle donne. Un tema connesso alla ricerca di quella autonomia decisionale per la quale lei, figlia di un mafioso, era disposta a perdere la vita. Una storia che solo da poco tempo sta emergendo dalla spessa coltre dell’indifferenza e che viene raccontata alla fine dell’incontro nello spettacolo La stanza di Lia dai pupi antimafia di Angelo Sicilia, premiato in questa occasione per l’impegno sociale. 

A moderare l’incontro Francesco Bertolino, consigliere comunale e presidente del comitato Partecipalermo: «Questo è un centro aperto alla cittadinanza che oggi ha raggiunto il traguardo dell’accreditamento regionale – riferisce – abbiamo deciso, con la collaborazione dell’assessora Marano, di lanciare un bando rivolto alle scuole per parlare fin da subito del tema della violenza sulle donne». Poi riporta un messaggio del marito di Lia, Gero Cordaro. Nè lui nè il figlio Alessio erano presenti all’incontro. Il messaggio di Gero potrebbe riscrivere questa storia, rendendole giustizia: «Mi ha detto di dirvi – prosegue il consigliere –  che è probabile che entro l’anno arrivi la sentenza sul processo (riaperto ndr) sull’omicidio di Lia» e che lei, morta a soli 25 anni, possa essere riconosciuta vittima di mafia.

A portare avanti con passione e determinazione i progetti del centro dedicato a Lia, Adriana Argento, che ne è anche la responsabile: «Occorre alimentare il coraggio delle donne a riconquistare la libertà. Uno dei lavori più importanti che si svolgono qui è sostenerle dopo la denuncia di violenza, che per loro diventa pesante come un macigno». Al centro si sono rivolte negli anni oltre cinquanta donne provenienti per lo più dal quartiere, un territorio difficile, come quello della zona di  Monte Pellegrino. Ma adesso iniziano ad avvicinarsi anche donne straniere. «Uno dei segnali che non viene preso in considerazione è la violenza economica  – sottolinea Argento – in quartieri come questo, dove è più facile per la donna trovare lavoro e gestire la famiglia, quest’ultima rimane succube del potere decisionale dell’uomo. Un altro grosso problema è l’isolamento. Nelle loro famiglie è come se la violenza venisse tramandata. Quindi non solo non ricevono sostegno ma vengono invitate a sopportare e a indurre le figlie a fare lo stesso». Il centro si sostiene economicamente con progetti pubblici, molte risorse provengono dall’autofinanziamento dei soci, in tutto tre. «E adesso accederemo anche ai finanziamenti regionali, con la legge 3 del 2012 con i fondi dedicati alle vittime di violenza – afferma Argento –  oggi nello specifico la Regione ha indetto un bando per sostenere queste donne anche nelle spese quotidiane». 

Nell’ottica di emancipare le donne e renderle indipendenti anche economicamente è nato un laboratorio di imprenditorialità femminile, il nome Atelier sociale La Coffa è stato pensato dalle stesse donne che se ne sono appropriate, sposando l’iniziativa. «Non si tratta di sartoria sociale – spiega Argento –  ma l’idea dell’atelier parte dal fatto che vogliono creare un nuovo progetto di vita. Senza il riciclo di materiale usato ma con la realizzazione di borse che possano raccontare le loro storie. Un’altra idea è che in una parte interna della coffa scriveranno frasi e pensieri che possano essere di sostegno alle altre donne perché possano trovare il coraggio di essere libere».  

Un concetto rilanciato dall’assessora Giovanna Marano, presente all’incontro: «Questa esperienza ci dice come il nostro territorio sia pieno di energie femminili – sottolinea –  per trasformare la violenza  in una ripartenza, per uscire da quella condizione. Quella della violenza degli uomini sulle donne non si può chiamare più un’emergenza ma bisogna affrontare il fenomeno dal punto di vista culturale e fare prevenzione a partire dalle scuole». Una necessità sostenuta anche da Davide Faraone, sottosegretario all’istruzione, anche lui intervenuto nel corso dell’incontro.

Durante il dibattito è emerso un problema finora poco conosciuto dai più e che riguarda da vicino il caso di Lia, introdotto dal deputato pd e membro della commissione antimafia Davide Mattiello. «Ci sono donne che non sono collaboratrici di giustizia, né testimoni di giustizia, e non avendo informazioni da condividere non accedono ai programmi di protezione e al cambio delle generalità in modalità protetta». Mattiello poi aggiunge: «Una norma era stata già inserita ma una parte di magistratura antimafia ci ha indicato delle criticità, e quindi per ora è saltata. Ciò non toglie che si deve trovare il modo di fare accedere queste donne al cambio di generalità. Lo stesso Papa Francesco ha fatto un riferimento specifico a questa terza via che serve anche ai loro figli».

Stefania Brusca

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