Iblis, ultima udienza prima della pausa estiva «Fagone era il referente politico della mafia»

C’è l’imputato che ogni giovedì, giorno delle udienze, prende gocce di tranquillanti. C’è la guardia penitenziaria che, nelle pause, chiacchiera con gli avvocati e si accende sul tema del sovraffollamento delle carceri. Ci sono i familiari che approfittano dell’occasione settimanale in più per salutare i parenti detenuti da dietro il vetro che il separa. Scene ordinarie alle udienze del processo Iblis sulle presunte collusioni tra politica, mafia e imprenditoria nel Catanese, adesso congelate per più di un mese durante la pausa estiva. Quando anche la giustizia va in vacanza, fino a settembre e a partire dall’ultima udienza di oggi, la terza che ospita la testimonianza del maggiore del reparto operativo speciale dei carabinieri etnei Lucio Arcidiacono. Ma non l’ultima. «Prevale il diritto alla salute»

Protagonisti, come spesso è capitato in questi mesi, gli intrecci politico-affaristici-mafiosi nella zona di Palagonia. Tornata sotto il controllo della famiglia catanese di Cosa nostra nel 2005 dopo l’operazione Dionisio che ha decapitato le gerarchie locali. A gestire i rapporti tra la città e la provincia sarebbero stati Enzo Aiello, presunto capo provinciale della mafia catanese, con l’aiuto sul territorio di Rosario Di Dio e i presunti stretti rapporti con l’allora sindaco Fausto Fagone e l’assessore Antonino Sangiorgi. Definiti dal maggiore «i referenti politici di Cosa nostra etnea». Ed è proprio la figura dell’ex primo cittadino palagonese, unico politico di spicco a non aver scelto il rito abbreviato, ad esse approfondita oggi in aula. I racconti di Arcidiacono restituiscono una figura quasi organica a Cosa nostra etnea, con frequenti rapporti e manifestazioni di affetto e confidenza con esponenti mafiosi che sembrano collocarsi oltre la zona grigia con cui ormai si definiscono le collusioni – più o meno attive – tra politici, imprenditori e criminalità organizzata.

Deputato all’assemblea regionale siciliana prima, durante e dopo la sindacatura, Fausto Fagone è stato primo cittadino di Palagonia dal 2003 al 2008. Una carica ereditata dal padre, Santino Fagone, insieme ai contatti con la criminalità locale, secondo il maggiore Arcidiacono. Ma se Fagone senior avrebbe avuto «contatti documentati con Francesco La Rocca (ex vertice mafioso del Calatino ndr)», al figlio Fausto vengono addebitati frequentazioni e affari con i nuovi vertici locali e provinciali di Cosa nostra etnea. Gli stessi che, secondo i carabinieri, lo avrebbero aiutato fin dal momento delle elezioni, «con l’impegno di Rosario Di Dio (presunto boss del Calatino ndr), il reggente di Ramacca Pasquale Oliva e suo cognato Giuseppe Tomasello, allora consigliere comunale di Ramacca». In cambio di appalti e favori, come la concessione gratuita di spazi comunali e la gestione – altrettanto gratuita – del sito archeologico Coste di Santa Febronia ai coniugi Brancato, suoceri di Alfonso Fiammetta – condannato in primo grado a 11 anni e quattro mesi per associazione mafiosa nel filone abbreviato di Iblis – utilizzato per la realizzazione di una pizzeria.

Presunti contatti tenuti da Fagone a volte direttamente, più spesso tramite la mediazione dell’allora assessore della sua giunta Sangiorgi. «In un’intercettazione si sente l’imprenditore pregiudicato Franco Costanzo (condannato in primo grado a 20 anni per associazione mafiosa ndr) chiedere a Giovanni Barbagallo (condannato in primo grado a nove anni e quattro mesi per associazione mafiosa ndr) come si stava comportando Fausto in merito a quei finanziamenti che doveva fare arrivare a Palagonia per dei lavori che dovevano essere controllati da Cosa nostra», racconta Arcidiacono tra i tanti esempi snocciolati in aula. E proprio a Barbagallo – ritenuto il tramite della criminalità organizzata etnea anche con altri politici, come i fratelli Raffaele e Angelo Lombardo – Fagone avrebbe fatto pervenire una proposta di incarico al Comunale di Palagonia tramite Sangiorgi. Offerta che però non avrebbe soddisfatto il geologo, pizzicato dai carabinieri al telefono durante una conversazione di lamentela con Enzo Aiello.

Ma i contatti maggiori, secondo gli investigatori, Fagone li avrebbe intrattenuti con Rosario Di Dio.  «Andando a trovarlo nel suo distributore Agip – racconta il maggiore – Visite che si sono sempre concluse con saluti affettuosi… Si baciavano, insomma». Ma Di Dio, per i magistrati, è il nuovo referente dell’area del Calatino legato alla famiglia etnea di Cosa nostra.  «Tra tutti i personaggi che tenevamo sotto controllo, Rosario Di Dio dimostrava un particolare dinamismo nell’acquistare e intestare a figli e parenti beni poi posti sotto sequestro», ne tratteggia la figura il maggiore. Un patrimonio acquisito tramite le varie attività riconducibili all’imputato: quelle legali, come la stazione di servizio Agip sulla Catania-Gela, e quelle illegali, come ricettazione di mezzi rubati, estorsioni e prestiti a tassi usurai. Business che si intrecciano, nel caso della stazione di rifornimento, utilizzata anche come sede di incontri, scambio di pizzini diretti all’allora capo di Cosa nostra Bernardo Provenzano e luogo di accoglienza di un mussu – abbreviazione di Muss’i ficurinia, come vengono chiamati gli esponenti del clan Laudani – in vista di una delicata riunione con il capo provinciale Enzo Aiello. «Una vicenda che dimostra la centralità di Di Dio in Cosa nostra etnea», spiega Arcidiacono. Titolo al quale, come risulta da alcune intercettazioni del 2007, l’uomo avrebbe voluto rinunciare. «Ma le registrazioni successive dimostrano come non abbia mai abdicato al suo ruolo apicale», conclude Arcidiacono.

Claudia Campese

Giornalista Professionista dal 2011.

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