Iblis, a rischio la sentenza di domani Santapaola jr: «Credo ancora nella giustizia»

Più di tre secoli di condanne per sciogliere uno dei nodi più ingarbugliati della provincia di Catania. Quello che lega insieme mafia, politica e imprenditoria. Era questa la richiesta della procura di Catania per il processo Iblis, dal nome del diavolo in arabo, che domani dovrebbe arrivare alla sua pagina conclusiva con la sentenza. Una macchina giudiziaria andata avanti per quasi due anni e mezzo ma che potrebbe incepparsi proprio alla fine. La corte di Cassazione ha infatti accolto il ricorso dell’imputato Giovanni D’Urso riguardo la sua istanza di ricusazione della corte che domani dovrebbe giudicarlo. Richiesta in un primo momento respinta dalla corte d’appello che adesso se la ritrova sulle proprie scrivanie dopo la decisione della Cassazione. E che potrebbe provocare uno stop del processo ormai alla fine oppure lo stralcio della posizione di D’Urso e il pronunciamento della sentenza per gli altri 21 imputati. Posizione quest’ultima preferita dal collegio giudicante, pressato dall’imminente scadenza delle misure di custodia cautelare per alcuni personaggi dell’indagine.

L’ultima udienza si era chiusa proprio con la voce di uno dei protagonisti del caso: Vincenzo Santapaola, figlio di Nitto, accusato dai magistrati di essere il capo-ombra di Cosa nostra a Catania, soprattutto sulla base dei racconti dei collaboratori di giustizia. Il 24 aprile Santapaola decide di parlare alla corte. «Negli anni il mio cognome ha influenzato non solo le cronache giornalistiche, ma ancor di più il giudizio delle gente nei miei confronti fin da quando ero ragazzino», racconta. Una lunga dichiarazione di due ore, che comincia con i racconti dell’adolescenza all’istituto Agrario e la morte della madre, Carmela Minniti, «uccisa non da un mafioso o da un delinquente, ma da un collaboratore di giustizia allora in un luogo protetto (Giuseppe Ferone, in quel periodo in semilibertà, ndr)». Senza dimenticare un passaggio sulle sue condizioni di salute, critiche dopo un incidente in moto. «Ero malato nel corpo ma anche nella mente – continua – Perché non desideravo altro che farla finita e ci ho provato due volte».

Una vita di sofferenze e lavoro quella raccontata da Santapaola jr. E sempre lontana dalla criminalità, in qualunque sua espressione. «Odio le corse clandestine di cavalli perché gli animali vengono maltrattati e io sono un amante dei cavalli, ho fatto tanti anni di equitazione», racconta. Una vita ai margini con un solo errore. Una condanna per associazione mafiosa, ancora ventenne, «nata dal mio errore di farmi difendere da certe persone. Ma, vi giuro – si rivolge ai giudici – non ho mai aperto bocca per dare un ordine, ho chiesto solo perché dovevo morire anch’io se non avevo fatto niente». Un errore, come lo definisce Enzo Santapaola, pagato con la detenzione. E seguito dalle bugie di diversi pentiti. Alcuni dei quali, afferma l’imputato, «non ho mai conosciuto o frequentato», come l’ex reggente Umberto Di Fazio, i coniugi nomadi della malavita etnea Eugenio Sturiale e Palma Biondi, Paolo e Giuseppe Mirabile.

Di Angelo Siino, soprannominato il ministro dei Lavori pubblici di Cosa nostra, ha invece un ricordo d’infanzia. «Era amico di mio padre. L’ho conosciuto da ragazzino in una battuta di caccia, perché mi faceva sparare alle lattine – racconta – Quando lo rividi nel carcere dell’Asinara era molto apprensivo nei miei confronti e poi qui ha detto che qualcuno voleva farmi del male». Ma la maggior parte del suo sfogo Santapaola jr lo dedica a Santo La Causa. Ex reggente della famiglia Santapaola, oggi collaboratore di giustizia, e principale accusatore di Enzuccio, come pare venisse chiamato il figlio di Nitto dagli intimi. «Con lui non c’è mai stato un vero rapporto di amicizia, c’era solo un rapporto tra detenuti, per il quieto vivere. Un rapporto ipocrita da entrambi le parti, perché lui con altre persone ha sempre sparlato della mia famiglia, dei miei zii e di mio padre». «Una persona molto astuta, machiavellica – lo definisce Vincenzo Santapaola, che aggiunge – Ma anche il migliore dei bugiardi, se non conosce i fatti, finisce col fallare».

«Io contavo molto sulle intercettazioni, i filmati, i pedinamenti dei Carabinieri. Perché, se li avessero fatti, avrebbero visto che vita facevo». L’imputato commenta anche la mancanza di approfondimenti investigativi sul suo presunto ruolo di capo di Cosa nostra catanese. Il sintomo che su di lui non si sia trovato nulla, secondo i suoi legali. Il risultato della mancanza di fondi, invece, secondo il colonnello dei Carabinieri Lucio Arcidiacono. «Io mi sento nell’animo e nel cuore una persona normale, perché sono una persona normale. Che sogna di vivere una vita normale e non ha mai smesso di credere nella giustizia – conclude Vincenzo Santapaola -Perché se smetto di crederci, smetto di vivere. Finalmente dopo due anni io grido la mia innocenza e già mi sento un uomo libero».

Claudia Campese

Giornalista Professionista dal 2011.

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