Quindici centesimi al chilo, in alcuni casi anche cinque. I produttori siciliani di arance vivono una stagione da incubo. Colpa della sovraproduzione, si dice. Tesi che Corrado Vigo, presidente degli agronomi di Catania, non condivide: «C’è una produzione normale tendente all’alto, con un ritardo di maturazione di un mese e mezzo a causa del caldo tra novembre e dicembre. Si è cominciato a raccogliere a metà gennaio, con oltre un mese di ritardo. Di conseguenza c’è una concentrazione del raccolto e gli operatori commerciali approfittano della grande offerta». C’è il problema di sempre: i rapporti squilibrati tra agricoltori e grande distribuzione, a cui se ne aggiunge uno nuovo: i cambiamenti nella geopolitica mondiale e i venti di guerra che soffiano in Europa e in Medioriente. «L’Unione europea ha imposto l’embargo alla Russia per la crisi ucraina, la Russia lo ha deciso nei confronti della Turchia, da cui acquistava gli agrumi, così le arance turche hanno invaso i mercati europei», spiega Gerardo Diana, presidente della federazione nazionale agrumicola di Confagricoltura.
In un anno il prezzo delle arance, soprattutto quelle provenienti dalla piana di Catania, si è dimezzato. «È una questione vergognosa e non c’è alcuna giustificazione», sottolinea Vigo che va oltre la produzione delle diverse annate, soggetta sempre al mutare del clima. «Esiste un problema serio con la grande distribuzione che non ha nessun interesse allo sviluppo dei territori e che non promuove i prodotti locali». L’agronomo ha chiara una soluzione, sottoposta in passato anche al governo regionale. «La grande distribuzione tedesca fa le aste alimentari e spesso ci ritroviamo arance della Spagna, pompelmi della Grecia, melanzane e pomodori del Belgio e dell’Olanda. Quando gli enti pubblici danno licenze per i centri commerciali dovrebbero imporre in cambio che almeno il 50 per cento dei prodotti venga dal territorio su cui insistono». A questo andrebbero aggiunti più controlli delle forze dell’ordine. «La Guardia di finanza dovrebbe fare delle verifiche a ritroso, dalla vendita al dettaglio fino al produttore: se nei supermercati troviamo prezzi di 3,50 al chilo e in campagna il costo è di cinque centesimi, è chiaro che c’è qualcosa che non va nella filiera». Il risultato non sono solo tonnellate di agrumi a marcire a terra. «Quando non si coltivano più queste aree c’è un problema sociale e di dissesto idrogeologico. Soltanto in Sicilia sono a rischio 80mila ettari di agrumeti, significa che 32 milioni di piante potrebbero morire. Ma i Verdi, gli ambientalisti che si lamentano giustamente quando viene abbattuto un albero o quando si realizza uno svincolo autostradale, se lo pongono il problema?».
Per superare una crisi che si riaffaccia ad anni alterni, è chiaro che la repressione non basta. La sfida è incidere e possibilmente cambiare in parte le regole del mercato continentale. A dicembre la Corte di giustizia europea ha annullato l’accordo di libero scambio tra Ue e Marocco, siglato nel 2012 che ha consentito agli agrumi del Paese nordafricano di godere di un regime fiscale agevolato. Una bocciatura che non si basa su questioni economiche, ma ancora una volta politiche: il Marocco esporta infatti agrumi coltivati anche nel Sahara occidentale, dove abita il popolo Saharawi che rivendica la propria autonomia. Ma finora nulla è cambiato per la Sicilia. «Tutto – spiega Gerardo Diana – potrebbe risolversi nell’esclusione dei prodotti che vengono da quel circoscritto territorio. Ma noi abbiamo chiesto di cogliere l’occasione per ridiscutere e rendere più efficiente quell’accordo. Quanti di quei territori sono dei contadini marocchini, quando della famiglia reale o delle multinazionali? Quanto costa una giornata lavorativa lì e che prodotti vengono usati? Servono regole chiare, ad esempio inserire gli agrumi esteri in determinati momenti dell’anno, magari quando la nostra produzione si è esaurita».
Infine c’è da guardare verso quello che succede a migliaia di chilometri di distanza. «Dopo i problemi con la Turchia – spiega Vigo – la Russia si è rivolta all’Egitto e all’Iran. Quindici anni fa l’Egitto aveva una superficie agrumetata inferiore a quella della Sicilia, adesso l’ha superata. Esporta agrumi e importa metano». Mentre i produttori siciliani non riescono a intercettare quel mercato. «Il problema – continua il presidente degli agronomi – è la frammentazione dei produttori e l’incapacità di imporre un prezzo unico». Si prende spesso a modello il caso delle mele del Trentino riunite nel marchio Melinda. «C’erano 160 cooperative, adesso hanno un unico consorzio con tanti centri di confezionamento distribuiti sul territorio, ma quando si fa questo paragone si scorda che, dopo averle raccolte, le mele resistono anche due anni, le arance invece si rovinano dopo un mese e mezzo nelle celle. In ogni caso – conclude Vigo – si dovrebbe ripartire da un unico consorzio per raggruppare i venditori e stabilire il prezzo alla grande distribuzione: se tutti i produttori dicessero “a meno di 30 centesimi non si vende”, forse non saremmo in questa situazione».
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