BOB DYLAN
“Modern Times”
(2006, Columbia / Sony)
Bob Dylan è la storia, come si può voler male alla storia? Vengono i brividi, infatti, pensando che il menestrello più famoso del globo sia giunto al suo quarantaquattresimo album in studio e che, da quel lontano 62 (anno di debutto), sia quasi mezzo secolo che Bob scrive grandi successi di matrice generazionale. Così, contravvenendo alle regole non scritte della buona critica musicale che si basa sulla neutralità e sullascolto, questa volta sembra quasi inevitabile non mettere prima il personaggio e poi il prodotto, perchè questa volta il macigno artistico ingombrante una carriera è di quelli che non si possono proprio ignorare.
Sono trascorsi ben cinque anni dallalbum targato 11 Settembre Love & Theft e da quel gusto amarognolo che ristagnava sul palato di Zimmerman. Cera un terribile disastro allora ed una miccia internazionale, con le due torri al tappeto, era appena stata accesa inesorabilmente. In questa lunga mezza decade, Bob non ha mai smesso di fare musica: centinaia di concerti in giro per il mondo e chilometri di testi. Perché, chi ci è vissuto di canzoni, non può proprio smettere. E anche in questo Modern Times, alla fine, sembrano proprio le canzoni a trionfare. Delle parole di Dylan, del suo mancato nobel per letteratura e di quel suo magnifico contributo nello scrivere le pagine del XX secolo tutti sanno già tutto, e allora forse è meglio ascoltare questultimo lavoro con poche luci, con poco cervello, ma con tanto, tanto cuore e gusto. Sono dieci i tasselli di un disco che sembra presentarsi come omaggio a quella straordinaria opera tragicomica di Chaplin dallomonimo titolo. Come a dire: La stagione è di quelle brutte e allora affrontiamola con un po di sano e lucido umorismo. Gli Stati Uniti stanno vivendo una nuova ed un po differente depressione e la volontà di Dylan sembra proprio quella di lasciare che i sentimenti e la dolcezza vengano prima della politica e della canzone di denuncia.
Modern Times, così, è un disco di ballate ora leggerissime ora un po più ritmate, composte da un signore di sessantacinque anni che di cose ne ha viste in giro e che quindi si può permettere il lusso di raccontarcele a suo modo. Cè tanto blues – ormai fisso nei lavori di Dylan degli ultimi anni – e cè anche un immortale gusto di suonare bene. Sono Stu Kimball e Denny Freeman alle chitarre, Don Herron alla pedal steel e al violino, Tony Garnier al basso e George Receli alla batteria che formano il solito complesso deccezionale qualità che ha accompagnato Dylan in centinaia di trasferte musicali. Tutti che girano attorno alla voce di Bob che rimane di primordine nonostante una sofferenza vocale che rende il suo canto sempre più rauco e masticato. Tra le 10 tracce spicca senzaltro Ain’t Talkin’, Just Walkin’ che, nei suoi oltre otto minuti, sviluppa una trama sensuale e leggera e The Levees Gonna Break (“la diga sta cedendo”): una lirica incentrata sulla tragedia incomprensibile delluragano Katrina a New Orleans. Niente di particolarmente spiazzante ne di nuovo o di meraviglioso, ma pur sempre un disco di Dylan che, come si è detto in apertura, è comunque un evento che appartiene alla storia. E allora come voler male alla storia? Come voler male a Bob Dylan? Menestrello acciaccato che, forse, proprio perché Grande Vecchio capisce i tempi moderni meglio dei moderni stessi.
Nota: disco prodotto dallo stesso Bob Dylan sotto lo pseudonimo di Jack Frost.
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