«Ma cosa dirà oggi agli studenti?» domanda Alberto Conti a Pupi Avati, ospite di Radio Zammù pochi minuti prima dell’inizio della sua “lezione” all’interno del Trailer Film Fest 2010. La risposta di Avati, non scontata, riporta un po’ alla realtà quanti in Italia stanno in questo momento “studiando” per entrare nel mondo del cinema: non basta studiare, ci vuole il talento. Concetto ribadito nel corso dell’incontro, un lungo monologo al quale questa risposta fa da necessaria premessa.
«Al centro di tutti gli incontri metto il talento, il problema di come riconoscerlo. Non c’è essere umano che non abbia talento, perché ogni essere umano ha un’identità, quindi qualcosa di straordinario da dire, ognuno di noi rappresenta un’eccezione. Siamo qualcosa che né prima né dopo avverrà mai più. Ma si deve trovare lo strumento giusto attraverso il quale poter dire “chi siamo”».
«Questa proliferazione di corsi… in ogni Università c’è un corso, un “laboratorio” per gli audiovisivi, i DAMS disseminati ovunque, le tante scuole di recitazione private, corsi di sceneggiatura… Ovunque vedo manifesti, e in genere quelli che insegnano queste materie sono quelli che non sono riusciti a fare questo mestiere. Seguendo un detto di Mark Twain “Quando non sai fare una cosa insegnala”. Io penso che sia uno dei mestieri più belli del mondo, ma va fatto a patto di avere un minimo di predisposizione, che tu abbia un tuo mondo da raccontare, una tua voce, una tua calligrafia, perché altrimenti, facendolo solo con la buona volontà, si arriva poco lontano».
Pupi Avati dirà tutte queste cose con un racconto, la sua vicenda personale di scoperta del “talento” cinematografico. Vicenda al limite dell’assurdo, che si svolge nella Bologna degli anni ’60. La dipinge con toni grotteschi e con aria divertita. Del resto ha raccontato la stessa storia decine di volte, ad ogni incontro in Italia, sempre con un’unico obiettivo: «Queste poche ore che trascorro a Catania troveranno un senso se anche solo una persona uscirà da qui arricchita».
Da ragazzo – a detta sua – Pupi Avati era brutto, timido e senza soldi, non aveva nulla per farsi notare. E «a Bologna c’erano solo 4 ragazze carine». Escogitando dei modi per farsi notare, finse con i suoi amici di essere un jazzista: «Bastava alzare il bavero della giacca, una custodia da strumento anche vuota e un rapporto con l’igiene un po’ meno amichevole». E le ragazze, a quanto pare, accorrevano. Fingeva, ma imparò a suonare il clarinetto, finché divenne talmente bravo da essere considerato il miglior clarinettista di Bologna. Andava in giro per l’Europa, mentre in città dava consigli ai nuovi gruppi.
Un giorno lo chiamò una piccola band di ragazzi: tutti suonavano malissimo, e c’era il clarinettista che era veramente scarso. Lui gli disse come tenere lo strumento, come soffiare nell’ancia e tanti piccoli consigli. Mesi dopo, il “capo” della sua band decise di ingaggiare il ragazzino che suonava il clarinetto, che nel frattempo aveva fatto progressi. Girarono mezza Europa, e lui non si accorse che il ragazzo migliorava di volta in volta finché una sera il ragazzino non fece, all’improvviso, un assolo. «Non intervenni per non sembrare invidioso, ma nemmeno gli altri intervennero. E accadde una cosa strana: al novellino dissero sempre più spesso “bravo” perché lo era davvero, ogni volta migliorava. Da un assolo diventavano 2, poi 3, poi divenne l’attrazione principale della band. Andò avanti così per un anno finché a Barcellona, un giorno, dissi al giovanotto: “andiamo sulla Sagrada Familia, a vedere la città dall’alto”». L’invidia e la rabbia lo tormentavano e in un attimo di follia avrebbe voluto buttarlo sotto. «”Ma che sei scemo?” mi disse, e scese dalla chiesa. Così Lucio Dalla si salvò la vita, e io non suonai mai più: Iniziai a vendere pesce surgelato Findus».
Per 4 anni Pupi Avati è stato un venditore di pesce, ma un giorno andò al cinema e vide Otto e Mezzo di Fellini. «Qualcosa nella notte, in quell’ora magica prima di andare a dormire accadde, e immaginai di diventare regista». Lo disse ai suoi amici, li convinse, e in 12 andarono alla ricerca di una casa di produzione. Non rispose mai nessuno, tranne Ennio Flaiano che gentilmente scrisse: “non mandatemi mai più lettere”.
“Balsamus, l’uomo di Satana” fu il primo film di Pupi Avati, e non doveva avere come protagonista un nano. Ma un certo Ariano Nanetti si propose per la parte, dicendo di avere un contatto che poteva “mettere tanti soldi”. Continuare a vendere pesce o fidarsi di un nano dal nome grottesco? «Mi decido a chiamare Nanetti e questo, nuovo protagonista nel ruolo di “Balsamus”, mi dice: “mi dia 48 ore”. Come in una scena di un film, eravamo in 12, alla sala di biliardo, in attesa. “Vi presento Mister X” disse Nanetti. Mister X ci lasciò sul tavolo 16 assegni da 10 milioni l’uno, senza un contratto, senza altro che la nostra parola. Feci l’esordio più sontuoso della storia del cinema».
Pupi Avati è un “eclettico”, a metà strada tra il regista da cinema d’autore e un “operaio” da cinepresa, uno di quelli che fa tanti film ma “di genere”. «All’inizio mi sono molto dedicato ai generi perché sono la “palestra” attraverso la quale si impara questo mestiere. La grammatica, la sintassi l’apprendi attraverso i generi: horror, commedia brillante, film musiciale. Ti mettono nella condizione di dover necessariamente risolvere una serie di problemi a livello anche tecnico dei quali via via ti appropri. Poi da un certo punto in avanti il genere devi diventare tu stesso. In Europa a un certo punto s’è inventato il “cinema d’autore”, un cinema che deve essere contrassegnato da una identità, non si deve obbedire soltanto al genere. Io sono un po’ stupefatto da un mio grande amico, Dario Argento: ha cominciato con me e sta facendo sempre la stessa cosa, cosa che a me annoia da morire».
E proprio restando sui generi, Pupi Avati parla dell’ultimo film “Una sconfinata giovinezza”, che definisce come il suo “primo film d’amore”. Una storia d’amore insolita, perché parla di una coppia matura, senza figli, che proprio da questo “dramma” ha tratto il coraggio di restare unita. «Lui inizia ad avere i sintomi del morbo di Alzheimer, inizia pian piano a diventare smemorato, poi a regredire. Fino a quando lui da marito amato si trasforma in qualcosa di molto simile a un figlio neonato. E lei da moglie diventa madre». Ma c’è anche qualcosa di personale, perché l’idea per il soggetto è nata anche questa volta da una esperienza personale, quella di un amico ammalatosi di Alzheimer. «Pensare che l’amore possa essere una terapia mi fa sembrare questo film tutt’altro che inutile».
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