I miei occhi su Ground Zero

Ero a New York, ma da Ground Zero non ci volevo passare. Non lo volevo vedere, non avevo alcuna intenzione di cedere anch’io alla visita turistica nel luogo dove l’orgoglio americano, immaginavo, avrebbe fatto sventolare decine di bandiere a stelle e strisce.

Sì, perché se gli Stati Uniti sei sempre stato abituato a vederli non come un sogno ma come un grande Paese pieno di difetti e contraddizioni, quell’ostentazione così smaccata di patriottismo può anche infastidirti.

«God bless America» sulle porte di casa, «Proud to be American» accanto alle targhe delle auto, e dappertutto sventolanti stendardi che ricordino la forza statunitense, l’unità di una nazione che la civiltà l’ha imparata in fretta, e da anni si permette di esportarla.

Ground Zero ero convinta che sarebbe stato troppo. E poi avevo poco tempo. Mica potevo rischiare di tornare da New York senza aver visto altri simboli, meno atroci di quello: la Statua della Libertà, Ellis Island, Central Park.

Così ho attraversato il ponte di Brooklyn a piedi, una passeggiata di due chilometri fino a Manhattan, poi ho dato un’occhiata alla New York City Hall, e mi sono avviata in direzione dell’unica donna amata indistintamente da tutti gli americani.

All’incrocio tra Broadway e Fulton Street c’era questa piccola chiesetta, con l’aria di essere una cosa vecchia, in mezzo a tutta quella roba nuova. St. Paul’s Chapel, si chiama, ed è, in effetti, l’edificio più antico di tutta Manhattan, ché c’era George Washington ad inaugurarlo, nel 1776. Non è tanto il valore architettonico – figuratevi quanto può stupirsi delle meraviglie artistiche americane un italiano – quanto quello simbolico. La St. Paul’s Chapel è stato il punto d’appoggio per i primi soccorritori arrivati a tentare di salvare le vittime dell’attentato alle Torri Gemelle, l’11 settembre di nove anni fa. Perché alle spalle ha un piccolo cimitero che guarda direttamente sul World Trade Center, e io non lo sapevo. Tu esci, attraversi questo minuscolo quadrato di terra e lapidi, e ti trovi davanti un gigantesco cantiere, attorniato dai soliti grattacieli incredibili a cui New York ti abitua da subito. E le Twin Towers, lo apprendi dalle foto, li facevano sembrare bassi.

Era il dieci agosto, esattamente un mese e un giorno prima dell’anniversario: i turisti affollavano l’intero perimetro di Ground Zero. Gruppi organizzati con guide e sparuti visitatori in solitaria, molti sorridenti, a bocca aperta. «Can you make me a photo, please?». Smile, click.

Non capivo come si potesse farsi fotografare in posa davanti al cantiere. Non capivo come si fosse in grado di cercare di intrufolare la macchina fotografica tra le maglie metalliche della recinzione, per avere uno scatto originale delle ruspe, delle macerie, degli operai al lavoro per dare un volto nuovo al posto in cui sono morte più di duemila persone e ne sono rimaste gravemente ferite oltre il doppio.

Al Qaeda ha colpito al cuore la nazione da cui sono dipese per anni e dipendono ancora le sorti del Mondo, ha pugnalato il centro di una città, New York, e dello Stato tutto intero.

Dagli americani, abituati ad abbattere e ricostruire, vittime di una quasi totale assenza di memoria storica, ci si sarebbe aspettati che ricostruissero due grattacieli più grandi, due simboli che sottolineassero come l’America cade e si rialza: invece i progetti sono diversi. Sì, ci sarà un grosso grattacielo (si chiamerà Freedom Tower), ma ci sarà anche altro: il World Trade Center Memorial sarà una piazza con oltre quattrocento alberi, un museo e due piscine con profondissime cascate, costruite in corrispondenza delle fondamenta delle Torri Gemelle. Sui bordi, i nomi dei caduti. L’America è caduta e continuerà a farlo, simbolicamente, per ricordare quello che è stato.

Del museo esiste un’anteprima. È piccola, una stanza appena: ci sono i pannelli con la cronistoria dell’attentato, alcuni video, reperti appartenuti a chi ha perso la vita all’interno di quelle torri.

C’è una riproduzione della Statua della Libertà, avvolta in una bandiera americana, e sopra ci sono attaccati distintivi, fogli di carta, disegni, ci sono appese lettere e depositati anelli. È stata messa fuori da una caserma pochi giorni dopo il disastro, in ricordo dei 341 Vigili del Fuoco che non sono riusciti a salvare altri né se stessi. Poi, la gente ha cominciato ad usarla come un simbolo. «Bye bye, daddy», «See you later, my love»: a decine, tutti insieme, messaggi di questo tenore.

A Ground Zero, quando ci arrivi, per sbaglio, perché non volevi, ci passi un bel po’ di tempo. Quando te ne vai, stenti a fartelo passare il groppo alla gola. Non hai detto una parola per tutto il tempo che sei stata a camminare da quelle parti, ma hai pensato che sia stato un bene arrivarci, anche se per errore. E poi, bandiera americana ce n’era una soltanto: su una gru, al centro del cantiere.

Luisa Santangelo

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