I ladri di Stato e la lunga storia del finanziamento pubblico dei Partiti

di Francesco Busalacchi

Oggi in tutti i giornali i politici autocelebrano la grande impennata di civiltà che li ha portati ad approvare (solo nella Giunta per il regolamento della Camera: il cammino è ancora lungo e pieno di insidie, ma tant’è) una norma che consenta la verifica dei bilanci dei gruppi parlamentari da parte di una società esterna alla Camera dei deputati. Si tratta, in sostanza, del controllo sulle spese effettuate con i soldi pubblici che vengono distribuiti ai partiti come rimborso delle spese elettorali.

La cosa rischia di avere un effetto magico ed ipnotico, direbbe Marcuse, il quale ci mette in guardia contro le astuzie della ragione. E fa un esempio. La sigla NATO, ragionevole e giustificata dalla lunghezza dei termini non abbreviati, serve ad evitare domande non gradite. La sigla infatti non dice quel che dice North Atlantic Treaty Organization, menzionando un trattato tra nazioni che si affacciano sull’Atlantico del Nord, nel qual caso qualcuno potrebbe chiedere perché siano membri l’Italia, la Grecia e la Turchia. Questo stile, dice Marcuse, possiede una concretezza sopraffattoria. E la sopraffazione consiste nel volerci impedire, quasi sempre riuscendovi, di ricordare e porre precise domande, cioè, nel caso di cui parliamo, nel farci credere che è stato fatto uno sforzo sovrumano e un sacrificio inenarrabile. Ma noi abbiamo buona memoria e le domande invece ce le poniamo.

Come e perché nasce il finanziamento pubblico dei partiti? Cerchiamo di ripercorrere tutta la vicenda.

A metà degli anni Settanta del secolo passato esplose in Italia e in tutta Europa un clamoroso caso di corruzione, lo scandalo Lockheed. Dato il numero e l’importanza dei politici implicati (un Presidente della Repubblica fu costretto a dimettersi), la politica, tutta, piuttosto che fare ammenda per i propri tesserati mascalzoni (anzi ci fu chi teorizzò che rubare per finanziare i partiti non era reato), trovare subito il sistema di cacciare via i farabutti e scegliere gente onesta da mettere al loro posto, trovò nei costi della politica la motivazione della corruzione e argomentò che se i partiti avessero goduto di appositi finanziamenti la corruzione sarebbe finita. Un ragionamento disonesto e truffaldino, una delle pagine più squallide e miserevoli dell’intera storia repubblicana.

Fu come se il Parlamento, avendo appurato che tutte le persone che si chiamavano Giuseppe Rossi erano affetti da una incoercibile tendenza a rubare, avessero deciso di porvi un freno assegnando agli stessi, utilizzando i soldi dei contribuenti, un vitalizio milionario. Come se l’onestà non fosse una virtù, ma una questione di quantità e come se il sistema del finanziamento pubblico fosse garanzia quindi di onestà e correttezza. (a destra, immagine interna di Montecitorio, foto tratta da midiesis.it) 

La cronaca ci ha sempre dimostrato che per la maggioranza dei politici la politica è un modo di arricchirsi. Oltretutto va sempre ricordato che l’uso del pubblico denaro deve essere motivato dall’interesse pubblico. Orbene, quale può essere l’interesse pubblico a che i politici siano onesti, non essendo essi obbligati a fare politica e potendo esercitare la loro libidine di latrocinio nel settore privato? Solo se fossero obbligati potrebbe esserci un (teorico) interesse dello Stato a costringerli all’onestà, ma non è così, anzi ricordiamo che i partiti che esprimono i politici sono associazioni private volontarie neanche riconosciute dallo Stato e quindi fatte da privati cittadini, come i signori Giuseppe Rossi, appunto.

Di fronte alla corruzione dilagante degli inizi anni Novanta (la prova provata che chi è disonesto lo è sempre e comunque), si arrivò alla saturazione e al referendum abrogativo del finanziamento pubblico dei partiti. In assoluta malafede, però, non tenendo conto della volontà popolare, la politica inventò un sistema che aggirò l’ostacolo. Invece di finanziare direttamente i partiti si rimborsarono le spese che i partiti avevano sostenuto per effettuare le elezioni. La motivazione,ripetuta in questi giorni, in occasione del caso Lusi e del nuovo tentativo di eliminare i rimborsi, era che senza i rimborsi si rischiava che un miliardario potesse comprarsi qualsiasi partito.

Come se non fosse già stato dimostrato che un miliardario per scendere in campo non ha bisogno di un vecchio partito e che trova più conveniente farsene uno nuovo di zecca!

La legge operò in assoluto silenzio, foraggiando tutti i partiti con denaro pubblico per importi due o tre volte superiori alle spese effettivamente sostenute e senza prevedere controlli, come se improvvisamente i politici, visitati dallo Spirito Santo, fossero diventati casti e puri. Il caso Lusi ci dice chiaramente che non è così. Non solo, ma si rivela una beffa atroce. Infatti sono stati rubati dai politici i soldi (del contribuente) che erano stimati necessari per evitare che i politici rubassero.

E veniamo al contenuto della delibera della Giunta della Camera e al sistema dei controlli ideato.

La stella di Plutarco brillò luminosissima fino alla Rivoluzione francese. Fino a quando cioè tutto il potere era accentrato nelle mani di uno solo ed era quindi necessario che quest’uno imparasse l’arte del buon governo. E chi meglio di Plutarco, con gli esempi degli uomini illustri e con i suoi precetti morali faceva alla bisogna? A poco a poco, dopo la rivoluzione si affermò la dottrina di Montesquieu e la garanzia del buon governo venne riposta nel sistema della separazione dei poteri e in quello dei controlli bilanciati. La cui regola fondante è quella della terzietà, il che vuol dire che il controllante non deve mai, dico mai, sedere alla tavola di don Rodrigo. (sopra, immagine esterna di Montecitorio, foto tratta da romeartlover.it)

Qualcuno ricorderà che per perorare la causa di Lucia il buon frate Cristoforo si reca a casa di Don Rodrigo, il quale, in quel momento sta banchettando con certi suoi amici tra i quali c’è il podestà, colui che, per dirla con lo stesso Manzoni, “avrebbe dovuto, in teoria, rendere giustizia a Renzo Tramaglino”.

La stampa riporta che la norma (se passerà) prevede che i bilanci dei gruppi parlamentari saranno certificati da una sociètà di revisione legale selezionata dall’Ufficio di presidenza con procedura di evidenza pubblica. Vediamo se questa procedura rispetta il principio di terzietà dei controlli. E quindi se è rispettata la condizione di separatezza e di indipendenza nei confronti delle due parti in causa. A voi sembra corretto che sia l’Ufficio di Presidenza (che è composto di rappresentanti dei gruppi parlamentari che saranno sottoposti ai controlli) a selezionare i concorrenti? A me francamente non sembra.

Si sa che i politici resistono a tutto tranne che alle tentazioni. Resisteranno i politici alla tentazione di condizionare le scelte? Resisteranno i politici ai condizionamenti delle società concorrenti? Non è più logico allontanare da sé ogni sospetto facendo decidere ad un organo terzo rispetto al Parlamento? Forse, ma i rischio di essere controllati veramente sarebbe altissimo.

 

Redazione

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