I dieci anni dell’euro, bilanci e previsioni

Il primo di gennaio di questo nuovo anno l’euro ha compiuto dieci anni quale moneta d’uso scambiata anche dai consumatori. Dieci anni compiuti in un clima di critiche e dubbi provocati anche dalla crisi finanziaria che, notoriamente, è di dimensioni mondiali e non solo europee.
Oggi molti azzardano ipotesi catastrofiche come quella della sparizione della moneta. Se così fosse, l’euro dovrebbe trovarsi in una situazione di estrema svalutazione e dovrebbe, prima di parlare seriamente di una sparizione, scendere per lo meno ai minimi storici. Pochi critici dell’euro ricordano che, in realtà, il minimo storico dell’euro fu raggiunto ancora prima di vedere la luce in quanto moneta scambiata dai consumatori: e cioè nel 2001, quando ancora era in “gestazione”. A quell’epoca toccò minimi oggi lontani: meno di 0.85 dollari Usa per un euro nel 2001.
Come un bimbo, anche l’euro ha avuto una fase delicata durante il primo anno di vita, in cui è rimasto intorno a 1.20 per euro (2002). Oggi siamo intorno ad 1.30 dollari per un euro, il che dimostra che, nonostante le difficoltà finanziarie degli Stati e delle banche europee, l’euro rimane una moneta di riferimento più forte, o almeno, meno debole del dollaro Usa.
Le critiche però, non sono del tutto infondate. Non solo dal punto di vista della tenuta della moneta stessa, ma anche per quanto riguarda l’analisi dei benefici, ed ovviamente dei costi, associati alla sua adozione ed al suo mantenimento. Cerchiamo di sondarli qui dal punto di vista dell’economia siciliana e della Sicilia partendo dai benefici di 10 anni fa e di oggi, e concludendo con i costi, sempre riferiti a 10 anni fa e all’oggi.
I benefici dell’euro sono o dovrebbero essere molteplici, anche per la Sicilia, e possono riassumersi nei seguenti effetti: a) un tasso di sconto più basso, che dunque libera risorse finanziarie per gli investimenti e quindi per lo sviluppo; b) bassa inflazione e stabilità dei prezzo o del loro modesto incremento nel tempo, e quindi meno incertezza, più giustizia sociale ed ancora ambiente favorevole all’economia, via investimenti e via domanda sostenuta dalla stabilità; c) sempre per via di bassi tassi di sconto, minore peso per il rimborso del debito pubblico e quindi minore pressione fiscale ceteris-paribus.
Andiamo ai costi, magari iniziando a fare un focus sulla Sicilia. Il costo principale del passare da una moneta diciamo così, flessibile rispetto ai mercati europei, ad una unica, e quindi rigida al 100% è che economie più deboli devono competere con economie più forti, all’interno ed all’esterno dell’area monetaria unica, senza l’ausilio di una moneta debole che aiuti l’export. E’ chiaramente il caso della Sicilia e del Mezzogiorno, così come quello della Grecia, del Portogallo, della Spagna… insomma delle aree che al momento fanno temere per la tenuta generale dell’euro. La Sicilia ha dovuto fare i conti con la sua bassa competitività con aree forti della Germania: le imprese di Agrigento e di Palermo hanno dovuto competere con la stessa moneta forte contro economie di Francoforte e Dusseldorf.
Un secondo costo è di tipo più politico e sociale: la perdita dell’autonomia nella politica monetaria. Per i non addetti ai lavori, si tratta della mancanza della possibilità, oggi, di decidere, Paese per Paese, quale target debba avere la banca centrale: l’inflazione o la crescita. Essendo la BCE dominata dalla paura dell’inflazione, tipicamente tedesca, per ragioni storiche, la politica monetaria dell’euro è sempre stata quella di: 1) mantenere bassa l’inflazione, eventualmente anche a danno dello sviluppo; 2) mantenere forte l’Euro, ancora a danno dello sviluppo o almeno dell’export delle zone deboli dell’area euro, come la Sicilia.
Torniamo infine a sopracitati benefici dal punto di vista della Sicilia e delle aree simili (Grecia, Portogallo, Mezzogiorno, Spagna, etc.). In realtà essi si sono realizzati solo in parte ed in maniera distorta.
Per quanto riguarda il bassi tassi d’interesse per le imprese e per le famiglie, si è verificato un meccanismo perverso: i tassi non si sono abbassati di molto per le aree deboli e per le imprese comuni, soprattutto per le imprese nuove e giovani. Laddove il tasso si è abbassato, il beneficio è stato negativamente compensato da un credito ristretto, sempre nelle aree meno sviluppate come la Sicilia. Insomma, le banche hanno preferito prestare denaro ad imprese in aree sviluppate, visto i tassi tendenti a quelli da aree sviluppate. Il credito è rimasto, giustamente dal punto di vista delle banche, scarso per le imprese della Sicilia e delle aree deboli che si sono spesso dovute rivolgere a mercati finanziari collaterali e, ahimè spesso, illegali, come l’usura. Inoltre, più che in attività veramente produttive, il credito disponibile è stato impiegato massivamente in attività immobiliari, anche se questo fenomeno è stato molto più forte in posti come la Spagna, la Grecia, o le grandi città come Roma e Napoli, più che la Sicilia.
Per quanto riguarda l’inflazione, rispetto agli anni ’90 c’è stata una sostanziale riduzione. Eppure, complice il petrolio che proprio in Sicilia si produce in forma raffinata per tutta la produzione dell’Italia settentrionale senza alcun beneficio per noi e con tutti i costi ambientali, l’inflazione si è ridotta molto meno di quanto si sperava.
Insomma, a conti fatti la Sicilia e le aree marginali e meno sviluppate d’Europa hanno pagato con minore sviluppo la stabilità dell’Euro e dell’Europa e, paradossalmente, hanno pagato anche per la stabilità e la crescita di economie più avanzate, quelle del Settentrione europeo e della Germania in particolare.
Per dirla in parole facili, l’Euro è stato il frutto di un patto tra Europa di serie A ed Europa di serie B (economicamente e finanziariamente parlando). L’Europa di serie A, (e cioè, in primo luogo la Germania, ma anche l’Olanda, la Danimarca, la Francia, il Settentrione d’Italia, etc.) ha preso tutti i benefici della stabilità accettando di pagare attraverso la garanzia della propria virtuosità e solidità in caso di crisi. L’Europa di serie B (Il Mezzogiorno, la Sicilia, la Grecia, la Spagna, il Portogallo, etc.) ha accettato (ma qui è più preciso dire che è stata costretta a farlo) di pagare il conto in termini di mancato sviluppo non più aiutato da una moneta debole e flessibile e di competizione con aree molto più forti, a fronte di una stabilità garantita dall’Europa di serie A, qualora si presentasse una crisi.
La crisi, come tutti sanno, è arrivata: in parte importata dalla crisi americana (come nel 1929) ed in parte per gli atavici problemi europei. A questo punto ci si attendeva una risposta da parte dell’Europa di serie A. Invece, la risposta non è arrivata, o è arrivata tardiva e insufficiente, a partire dal caso della Grecia. Insomma, la serie A, come succede anche nel calcio italiano, ha storto il naso “a ora di pagare il conto”, come diremmo a Palermo e se la rifardiarono tanticchiedda
I mercati, che osservano prima d’investire, hanno ben presto capito l’antifona ed hanno, ovviamente, differenziato il livello di investimenti a fronte di rischi diversi da Paese a Paese: laddove il debito pubblico dell’Europa di serie B non è più garantito dall’Europa di serie A, hanno preteso interessi più alti a fronte dello stesso livello di liquidità allocata. Nulla di più ovvio.
L’euro sparirà? Non credo: finora è convenuto più all’Europa di serie A che a quella di serie B. E l’Europa di serie A (la Germania in testa) è la più forte. In finanza, di solito, come in altre attività umane basate sul proprio tornaconto immediato, vince la legge del più forte.

 

Gabriele Bonafede

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