I corsi interfacoltà non sminuiscono l’identità di una facoltà

In un Monastero praticamente deserto abbiamo incontrato il professor Pioletti, ex preside della facoltà di Lingue e oggi candidato alla carica di Rettore dell’Università di Catania. Una lunga chiacchierata che ha toccato molti tempi importanti e d’attualità: dalla discussione che ha portato all’approvazione dei piani di studio dei corsi della facoltà di Lingue, al dibattito sul valore e le prospettive dei corsi di Scienze della Comunicazione a Catania; dal numero chiuso al ruolo del futuro Rettore;

Cominciamo proprio dai piani di studio: lei per primo, un anno fa, aveva ammesso l’esistenza del problema, proprio in un’intervista a Step1. Un anno dopo, che valutazione dà di questo percorso compiuto dalla Facoltà e del risultato raggiunto?
Nell’ultima fase del 2005, in particolare nel periodo natalizio, un gruppo di docenti, tra i quali io, ha trascorso del tempo elaborando i nuovi piani di studio. E l’esito di questo lavoro, non semplice, ha portato all’elaborazione di nuove proposte che, per quanto perfettibili, segnavano un passo in avanti sia per quanto riguarda Scienze della Comunicazione Internazionale (Sci) sia per Mediazione Linguistica a Ragusa e per tutti i corsi. Il tentativo era quello di dare una più specifica caratterizzazione ai corsi di laurea.

Era stato detto, da più parti, che sarebbe stato possibile per tutti gli studenti, transitare dai vecchi ai nuovi piani. Perché invece non sarà così?
Quando abbiamo approvato questi nuovi piani – non senza dibattito – io e altri avevamo effettivamente affermato che sarebbe stato possibile transitare dai vecchi ai nuovi piani. Io non smentisco la mia dichiarazione che di riferiva a una prassi prevista.
Quello che io francamente, dal dibattito che si è sollevato, e dagli interventi di alcuni studenti – anche se non sono molti in verità – ho trovato fuorviante è rappresentato da certi giudizi che parlavano di presa in giro nei confronti degli studenti, che si ‘è barato’, che si è trattato di ‘un atto di furbizia da parte della Facoltà’. Io credo che vada chiarito che non c’è stato niente di tutto questo. Il perché viene da questa semplice domanda: quale sarebbe stato l’interesse della Facoltà di impedire che si possa transitare dal vecchio al nuovo piano di studi? Quale? Vorrei capirlo…

E allora perché non si potrà fare?
La questione in realtà va impostata in altri termini: gli studenti dovrebbero approfondire quali sono i motivi che hanno portato all’attivazione solo del primo anno dei piani di studio.
Premetto che su questo argomento che in Facoltà c’è stato un dibattito anche molto vivace e molto serio e costruttivo. I motivi sono stati fondamentalmente due. Il primo di carattere burocratico: un gruppo di lavoro era stato incaricato di studiare con la segreteria studenti quale sarebbe stato l’impatto dei passaggi dal vecchio al nuovo piano. E il dato che è emerso è che questo iter di passaggio per tutti gli anni non era sostenibile per l’attività della segreteria. Su questa valutazione di è discusso parecchio, perché era una scelta importante.
Personalmente mi rendo conto perfettamente della delusione che hanno avuto gli studenti che pensavano di poter transitare ai nuovi piani ed questo è il motivo per cui avevamo deciso di non aspettare le nuove classi – tra l’altro rinviate di un altro anno – e di dire ‘beh, cambiamo’. Volevamo proprio venire incontro alle esigenze prospettate degli studenti e ai limiti che noi stessi vedevamo. Quindi questa valutazione di questo impatto non sostenibile non è stata fatta a cuor leggero. Poi si può pensare che andava fatto comunque, indipendentemente dal ciò che ne sarebbe derivato.
Inoltre, forse, alla vigilia delle nuove classi, permettere a tutti il passaggio valeva la pena fino a un certo punto. Ci saremmo ritrovati presto a dover gestire un “Nuovo Ordinamento –I piano di studi”, un “Nuovo Ordinamento – II piano di studi” e, appena avremo le nuove classi, un “Nuovo Ordinamento – n° 2”. Una situazione che in altre Facoltà ha creato notevoli disagi. Un motivo è questo, che si può poi accettare oppure no, ma tutto è stato fatto in piena e totale responsabilità e non per barare o ingannare gli studenti.

Ma allora non sarebbe stato giusto dare agli studenti della triennale già iscritti la possibilità di usufruire almeno di una specialistica migliore? Non si potevano attivare sia il primo anno della triennale sia il primo di specialistica?
No. Questo non si poteva fare, perché la specialistica, in base alla legge 509, è vincolata ai tre anni precedenti. Non si poteva attivare un primo anno di specialistica con un piano di studi diverso, non avendo attivato tutti i nuovi tre anni della triennale. Non si poteva agire così per legge, non per mancanza di volontà.
Questo cordone ombelicale tra triennio e biennio sarà spezzato dalla nuova legge sugli ordinamenti didattici, se questa resta tale per come la conosciamo.

In che direzione deve andare il cambiamento dei piani di studio futuri?
Nella discussione che ho seguito, ho notato che c’è stata una sottovalutazione anche di altri aspetti. È un secondo punto che secondo me deve essere chiaro. Pongo un’altra domanda: che questi nuovi ordinamenti abbiano creato grandi problemi – ne hanno creati più di quanti non ne abbiano risolti – è la mia posizione da sempre. Certo, il vecchio ordinamento andava riformato, ma bisognava farlo in un altro modo, tanto è vero che al livello nazionale il dibattito sul 3+2 si è riaperto. Quindi, delle modifiche vanno apportate, a partire da un primo punto: se continuerà ad esistere il 3+2, determinate  facoltà dovranno ragionare sui 5 anni. Se poi si le Facoltà individuano percorsi triennali che portano a una figura professionale specifica, che lo facciano.

Cioè propone di ritornare alla distinzione tra diplomi di laurea e laurea…
Più o meno sarebbe quello. Nella mia ottica si configurerebbe come un 1+4 e con possibilità di una triennale tipo i vecchi diplomi universitari. Quando a Lingue sono stati applicati i nuovi ordinamenti didattici, noi abbiamo fatto una scelta abbastanza meditata e giusta: abbiamo individuato in ciascuna delle due sedi un corso di laurea più “professionalizzanti” (Sci e Mediazione Linguistica) e uno di tipo più ‘tradizionale’ (Lce e Studi comparatistici). Questi corsi avevano certamente limiti ma dai colloqui che faccio con gli studenti che esamino, non emerge un forte malcontento, non almeno come sembra emergere in altre parti.

Ma lei fa esami al secondo anno…
In una fase già avanzata quindi… Certo cosa diversa è la specialistica: ma di questo noi abbiamo avuto coscienza fin dall’inizio…

Di chi sono le responsabilità di tutto questo?
Le vere responsabilità sono anzitutto ministeriali, perché – senza entrare nel merito della riforma – il nuovo ordinamento è stato applicato in due tempi: prima la triennale, poi la specialistica. Quindi le Facoltà, ovunque, non hanno ragionato su 5 anni. Questo ha causato, non solo nel nostro ateneo, dei veri pastrocchi anche peggiori dei nostri. Il che non può significare ‘mal comune mezzo gaudio’, ma nemmeno ‘catastrofismo’. Secondo: questo genere non si fanno a costi zero. Gli atenei e di conseguenza le Facoltà si sono ritrovati in una situazione di grave ristrettezza.
Terzo: ci sono responsabilità di gestione dell’ateneo di Catania, perché non è stato svolto un lavoro serio di monitoraggio su come veniva applicato il 3+2. A tuttora non si è fatto, tanto che quasi il 50 per cento degli iscritti all’ateneo di Catania è fuori corso. Un dato che ha tante cause, ma la cosa grave è che l’ateneo non si è messo davanti a questo dato per vedere come intervenire.
Quarto: lo stato del budget della facoltà di Lingue che essendo nata dopo il 93, come entrate ha solo la voce ‘tasse e contributi’. Ho letto diversi interventi su questa ‘scusa dei soldi’ ma questo dato non si deve prendere sotto gamba. Secondo voi perché non abbiamo attivato nuove lingue? Personalmente credo di avere un livello di maturità scientifica e culturale tale da capire da solo che più lingue, attivate sia qui che a Ragusa arricchirebbero l’offerta della Facoltà. Questa dei soldi non è una scusa. Al contrario è un invito a mobilitarsi perché questo cambi. Ma per questo bisogna individuare l’interlocutore giusto: in questo caso non è la facoltà, ma il ministero e l’ateneo. Io spero che cambiando la gestione dell’Ateneo, cambino anche i criteri di distribuzione dei budget alle Facoltà.
Sono queste le cause e gli interlocutori a cui rivolgersi. Sulla facoltà di Lingue, poi, io vorrei che si entrasse di più nel merito della didattica. E qui ripeto un’altra mia opinione personale.

Ovvero?
È inutile girare la frittata: l’università è tale in quanto la didattica si fonda sulla ricerca, per cui prima viene la ricerca e poi viene tutto il resto. Quindi chi si iscrive all’università pubblica e sceglie la facoltà di Lingue deve sapere che non troverà una facoltà di Economia camuffata, o Scienze Politiche camuffata, con tutte le materie e una spruzzatina di lingue. Non è così: qui a Lingue l’asse principale della facoltà è lo studio delle lingue e delle letterature straniere, in varia misura a seconda dei corsi, a un livello qualitativo diverso rispetto a quello che possono offrire altri enti.
Chi ha questa passione si iscrive a Lingue. Chi invece ritiene che la lingua vale solo nel suo aspetto strumentale ma poi il suo asse principale debba essere economico, sociologico e così via… scelga un’altra facoltà. L’asse è questo ed è un bene che sia così, perché c’è un gran bisogno di persone che sappiano le lingue a un livello alto: per questo bisogna entrare nel merito della didattica, aprire una discussione su questo, fare proposte per migliorare l’insegnamento delle lingue e delle altre discipline.

Tornando concretamente alla facoltà di Lingue: il ricorso di docenti a contratto è un problema serio, che viene messo particolarmente in evidenza quando questi contratti scadono… come si evolverà questa situazione?
Innanzi tutto bisogna cambiare il regolamento di Ateneo sull’assegnazione dei contratti di insegnamento, perché quello attuale  stabilisce che dopo un certo numero di anni il docente non può più avere un contratto con l’università, il che crea problemi.
In questo senso io, insieme al Preside di Giurisprudenza, abbiamo già presentato in Senato Accademico una proposta di modifica che prevede che il contratto si assegni per tre anni e che dopo ci fosse un nuovo: se il mercato mi dice che in una data disciplina il migliore è il prof X, anche se questo prof X è già stato sotto contratto, può sottoscriverne un altro. Mentre ora ci vuole una soluzione di continuità. Questa è una riforma del tutto possibile, e credo che bisogna insistere perché vada fatto. Il meccanismo attuale previene eventuali richieste di stabilizzazione, ma danneggia la pubblica amministrazione.
Ma io soprattutto mi auguro due cose: la prima è che ci sia il corso interfacoltà, in modo che determinate discipline siano coperte da docenti che fanno ricerca nel campo, anche se ci sono contrattisti bravissimi. I contratti, dove necessario, vanno mantenuti, perché spesso da mondo delle professioni ricaviamo delle competenze utilissime alla nostra formazione.
L’altra provvedimento che io auspico è che il nuovo ministro, come ha dichiarato, preveda una massiccia programmazione di inserimento dei giovani studiosi. Questa è la via giusta.

Concentriamoci ora sul dibattito che si sta tenendo su Scienze della Comunicazione. Lei cosa ha da dire in merito?
Intanto ci tengo a dire che ho letto con grande piacere questa lettera dei rappresentanti degli studenti delle Facoltà che invitano i Presidi a studiare la questione e a imboccare la strada dei corsi interfacoltà.
Io lo dico da due anni in tutte le riunioni dei presidi delle aree umanistiche che se si vuole parlare di polo umanistico, dobbiamo partire da esperienze concrete. Abbiamo tre corsi di comunicazione nell’Ateneo, studiamo la possibilità di fare un corso interfacoltà, di creare una specialistica.

C’è chi non è d’accordo e difende l’identità dei propri corsi.
Non è affatto vero che un corso interfacoltà sminuisce l’identità di una Facoltà. Poiché il campo della comunicazione è abbastanza ampio è del tutto possibile che all’interno di un corso interfacoltà ci siano curricula che rispondano alle vocazioni delle singole facoltà. Non si sminuiscono queste cose astratte, idealiste e, direi, anche demagogiche degli aspetti identitari.
In secondo luogo un corso interfacoltà permetterebbe una qualità superiore perché una serie di insegnamenti di carattere economico, sociologico ecc… sarebbero coperti da docenti che fanno ricerca in questo settore.
Terzo: avremmo un risparmio perché tutta una serie di discipline sarebbero coperti da docenti che sono già in ruolo, anziché ricorrere ai contratti.
 
E allora perché non si fa?
Il motivo per cui non si fa – anche se ho letto con piacere l’intervento del preside Vecchio, che dopo due anni, ha aderito – è perché spesso è prevalente l’ottica di coltivare il proprio piccolo orticello. Ma io credo che questa logica vada cambiata.

Altro problema è l’ istituizione del numero chiuso. Qual è la sua posizione?
Non esito a dire che io sono stato sempre contrario al numero chiuso, perché ritengo che il diritto allo studio è sacrosanto, sancito dalla Costituzione. Inoltre ritengo che il numero dei laureati in Italia è ancora troppo basso e il numero chiuso andrebbe contro l’esigenza di aumentare questo numero.
Reputo, però, che in questa fase siamo in presenza di una situazione nella quale potrebbe darsi che la questione non si ponga più come una scelta: non prevedere un numero programmato potrebbe portare alla chiusura di alcuni corsi. Allora io, facendo un’analisi concreta, tra il chiudere un corso (anche se la questione ancora non si pone) e  il numero programmato, nel caso di comunicazione – che soprattutto nel meridione d’Italia, dove il campo della comunicazione che include anche quello dell’informazione, ha carattere veramente di bassissimo livello qualitativo e democratico. Abbiamo fatto bene a istituire corsi di comunicazione –  piuttosto che chiuderlo, accetterei il numero chiuso.
E non accetto la logica neo malthusiana, o di quello che dice Morcellini.

Cioè?
Che i corsi di laurea bisogna farli lì dove c’è la tradizione. In questo modo i corsi di comunicazione sarebbero stati solo a Roma, Bologna, Torino, Milano. Non è così, altrimenti teorizzeremmo l’immobilismo. Un ateneo ha anche il diritto di creare una nuova tradizione, noi ce l’abbiamo da 6 anni. Allora bisogna individuare le proposte concrete per migliorare questi corsi.

Il futuro Rettore dell’Ateneo catanese, in tutto questo, cosa può e cosa deve fare?
Il futuro Rettore, come coordinatore di organismi collegiali, deve proporre una politica di indirizzo basata su criteri e parametri chiari. Le Facoltà hanno la loro autonomia, e questa non si tocca, ma bisogna svolgere una grande attività di carattere culturale della scelta dei corsi di laurea – che non è un fatto di ingegneria burocratica – che nasca dallo studio e dall’analisi del mercato del lavoro, della proiezione delle figure professionali, in termini pluriennali di cui i sistemi hanno bisogno. Uno studio molto attento che faccia patto con le forze sociali esterne all’università, non sia autoreferenziale.
Per questo propongo sia una Consulta per la ricerca e l’innovazione, sia una ‘Consulta per il lavoro’ di cui facciano parte in modo strutturale tanto gli enti locali quanto il mondo della produzione che quello del lavoro. Il Rettore deve dare questa politica di indirizzo. Deve indicare, insieme al Senato Accademico, dei criteri e dei parametri per fare in modo che tutta l’offerta formativa dell’ateneo di Catania venga razionalizzata.

In che direzione dovrebbe andare questa razionalizzazione?
Deve rispondere ad alcuni criteri, quelli della qualità: evitare la polverizzazione delle discipline e un numero eccessivo di esami ogni anno; fare in modo che le discipline abbiano un numero congruo di crediti; guardare con molta attenzione anche agli strumenti per limitare in modo significativo il ritardo negli studi. Questi strumenti sono intanto un orientamento pre-universitario legato ai contenuti e non all’immagine; test di ingresso seri, l’orientamento intra universitario, cioè il tutor didattico, come stiamo facendo qui a Lingue, che rispetto a difficoltà che gli studenti hanno a superare determinati esami, si pensi a dei corsi intensivi di recupero; infine l’uso intelligente della teledidattica, cioè di materiale didattico on line soprattutto per i non frequentanti, che sono tanti.

Silvia Lo Re

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