Gli attori principali, a Catania e provincia, sono sempre gli stessi. Da un lato Cosa nostra con le storiche famiglie Santapaola, Ercolano, Mazzei e La Rocca e, dall’altro, le cosche dei Cappello-Bonaccorsi e dei Laudani, ormai polo attrattivo di gruppi più piccoli e indeboliti. Uno scenario «immutato», scrivono gli investigatori nell’ultima relazione della Direzione investigativa antimafia. Un documento di quasi 400 pagine in cui trova spazio l’analisi, relativa all’ultimo semestre del 2017, della mafia alle pendici dell’Etna. Dalla droga, alle estorsioni passando per i tentacoli che si allargano ad appalti pubblici, energie alternative e migranti. Per raggiungere gli obiettivi c’è solo una linea: quella «del basso profilo». «L’inabissamento – si legge – che consente l’infiltrazione silente nel tessuto socio-economico attraverso un sistema di corruzione». Quando c’è bisogno, i clan etnei sono disposti anche a collaborare tra loro. Un esempio è quello emerso dall’operazione Chaos di novembre, quando in manette finirono 31 persone.
Le famiglie mafiose proiettano i loro interessi in un lungo elenco di settori: «Edilizio, appalti, trasporti – soprattutto su gomma -, le reti di vendita e della grande distribuzione, l’agroalimentare, la ristorazione, le scommesse clandestine, l’emergente mercato delle energie alternative, la gestione delle discariche nonché lo smaltimento e trattamento dei rifiuti». In quest’ultimo campo, l’accostamento è quello all’operazione Gorgoni nei Comuni di Trecastagni, Aci Catena e Misterbianco. Allo stesso tavolo si sarebbero seduti imprenditori e uomini delle istituzioni, come l’ex sindaco catenoto Ascenzio Maesano. «Significativo per Cosa nostra anche l’interesse nel settore delle onoranze funebri – recita il documento – come emerso nell’indagine Ambulanze della morte, in cui un addetto al trasporto avrebbe causato la morte di pazienti per incrementare i profitti di agenzie di onoranze funebri riconducibili a membri del clan Mazzaglia, Toscano e Santangelo».
La fotografia della Dia sottolinea anche l’utilizzo di nuove leve per gli affari. Si tratta di giovanissimi che spesso finiscono in manette quando gli investigatori fanno scattare i blitz nelle piazze di spaccio. Un fenomeno già emerso nelle operazioni Doks e Chilometro zero, nei quartieri etnei di San Giovanni Galermo e Librino. Dove, per esempio, un uomo utilizzava un bambino di sei anni per mettere al sicuro i soldi provenienti dalla vendita dello stupefacente. Lo smercio di cocaina e marijuana, secondo la Dia, rimane una delle principali fonti di approvvigionamento economico di Cosa nostra catanese. Per questo motivo, una parte della relazione viene dedicata ai rapporti tra consorterie mafiose per l’acquisto delle forniture di droga. Consolidati quelli con le cosche «campane e pugliesi per quanto riguarda marijuana e hashish», mentre quando entra in gioco la polvere bianca l’interlocutore principale resta la ‘ndrangheta calabrese. «Le indagini hanno fatto luce su un’inedita modalità di garanzia, introdotta dai narcos colombiani. A fronte della cessione di importanti quantitativi di stupefacente, alcuni acquirenti venivano sequestrati sino all’intervenuto pagamento del corrispettivo». Al tavolo degli affari la mafia si siede anche con gruppi internazionali. Come emerso con l’operazione Rosa dei venti tra Italia e Albania.
In tutto questo Cosa nostra non ha perso, secondo l’analisi, i suoi connotati rurali. Nelle mire delle famiglie mafiose finiscono fondi agricoli e caseggiati, utili «per beneficiare di fondi pubblici per lo sviluppo di attività produttive agricole e zootecniche, ma anche per perpetrare truffe ai danni dello Stato, attraverso il fittizio impiego di braccianti». In questo caso un territorio fertile è quello dei Nebrodi, a cavallo tra le province di Messina e Catania.
Per quanto riguarda la criminalità straniera che opera sul territorio etneo, stando alla relazione, sarebbe in atto una sorta di tacito accordo con cosche locali. Si aprono così le porte a «sfruttamento della prostituzione, caporalato, vendita di prodotti contraffatti e riciclaggio di denaro». Vi è poi una percentuale di organizzazioni criminali nate in territorio estero e migrate nei confini italiani che, «profittando dei canali e dei corridoi umanitari creati per dare sostegno ai migranti (rifugiati o richiedenti asilo), divengono stanziali, fungendo da collegamento con i sodalizi operanti negli Stati di origine».
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