I 90 anni di Rosa Balistreri nei racconti degli amici Dalle violenze all’emancipazione grazie alla musica

Tutte le situazioni, le stagioni, i momenti storici hanno un elemento caratteristico: l’atmosfera, il clima. Così anche per un compleanno: anno per anno, a ridosso di quella data e immediatamente dopo, si respira un’aria inconfondibile che profuma di nostalgia e di primavera; di ricordo e di futuro. Qualsiasi siano lo stato d’animo e l’età del festeggiato, quel rito si ripete sempre. In qualsiasi contesto. Rosa Balistreri oggi avrebbe compiuto 90 anni e di primavere ne ha viste iniziare parecchie, da tante angolature.

È stata bambina, mentre le facevano gli auguri dentro una casa senza mattoni e l’aria impastata di segatura e bastonate; quando scappava da quell’abitazione dove suo padre teneva anche una falegnameria, correndo e cantando disperatamente per le vie della Marina, tra bambini schierati lungo via Sant’Andrea a vendere pesci nei piatti, l’odore della pasta fresca di Donna Cristenza e l’organo della Matrice che suonava per i matrimoni, unica musica in quella sua vita povera e intimamente allegra.

È stata ragazza, quando a farle gli auguri – forse – era Iachinazzo, proveniente dalla famiglia di mastriceddri, suo compagno e carnefice; quando sfuggiva dalle legnate con una chitarra in mano, dall’odore di fave cotte che sua suocera preparava a pochi passi da casa, e amava segretamente un altro ragazzo, poi morto tragicamente in mare. «La incontravo nel mio palazzo, sul pianerottolo: in quel periodo faceva la domestica per i vicini di casa – racconta il dottor Enzo Marrali, pediatra in pensione e amico d’infanzia di Rosa – e mi diceva: “Quannu unu nascia disgraziatu un po’ canciari, l’unica è pigliarasilla a ridiri”».

È stata emigrata, Rosa, e odiava Licata anche per il suo compleanno: la sua città, la sua trappola iniziale. Un luogo che l’aveva rinnegata come figlia, stringendola nella morsa del pettegolezzo e di un’indifferenza che la stava risucchiando. Una dimensione che lei aveva deciso di cancellare dai propri orizzonti. «Un ci vegnu – recita una cartolina inviata a Marrali – ma quannu moru, vulissa ca un murissa daveru, pirchì u ma paisi ci l’haiu dintra u cori. Vidi chi po’ fari».

Lanciava grida d’aiuto e donava amore, Rosa. Come quello per il pittore fiorentino Manfredi Lombardi, oggi anche lui novantenne. «Ricordo bene il personaggio eccezionale di cui si sta parlando: con lei ho vissuto qualche anno, non molti. Io – afferma al telefono Manfredi, dalla casa di campagna dove vive da 50 anni con un’altra sposa – sono stato solamente un tramite tra lei e Giuseppe Ganduscio, cultore di musica popolare siciliana che instradò Rosa verso il successo». Un incontro casuale. «La situazione drammatica nella quale versava – continua Lombardi – mi spinse a interessarmi di lei. Era nata in un mondo un po’ selvaggio, da un ambiente senza regole, dove tutto ciò che aiuta a sopravvivere è concesso e dove, di conseguenza, si vive di anche di espedienti che poi ti rimangono nel sangue. Purtroppo è normale, succede – aggiunge, ironico – persino agli uomini di Stato». 

Da figlia abbandonata a simbolo di una città. «Rosa riuscì a emanciparsi dalla condizione aberrante dalla quale proveniva, e realizzò un lavoro suo, di qualità. Adesso mi farebbe piacere che quelle canzoni cantate con un’immensa passione, assieme alla forza della sua voce, facciano di Rosa il simbolo di Licata, mettendo quella grande emotività al servizio di qualcosa in cui credere».

È tornata a Licata, Rosa, a festeggiare il suo compleanno in quei luoghi rimossi, tra persone non più familiari, nell’ultima fase della sua vita. «Tuttavia, anche nell’ultimo periodo – racconta Gigi Genovese, avvocato e grande amico di Rosa – lei vedeva ancora un futuro e non si mostrava mai scoraggiata. Dagli anni ’80 in poi ci siamo sempre frequentati, adesso rimane ancora un grande vuoto: per me era una sorella. Di Licata non parlavamo quasi mai, anche se con lei si parlava di tutto: era una donna molto colta e aperta. Scriveva male, ma parlava bene». 

Una donna di una generosità fuori dal comune. «Ricordo – continua Genovese – che una volta eravamo a Palermo e lei arrivò con una grande macchina; noi la prendevamo in giro per le dimensioni spropositate della vettura rispetto alle sue esigenze. Un mese dopo non ce l’aveva più: l’aveva regalata, come quell’appartamento a Palermo che acquistò e del quale poi non si seppe più nulla. Rosa era così, e a me piace ricordarla come una forza della natura, una donna felice come nel giorno del suo ultimo concerto in un Teatro Lirico di Milano gremito». 

Rosa Balistreri fa 90 anni e ancora una volta, nel giorno in cui inizia la primavera, si sono dati appuntamento quanti la amano. Ma quest’anno c’è un clima diverso e un’ospite in più: Licata, la sua trappola iniziale e il suo porto ritrovato. 

Gino Pira

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