HRC, la crisi e la voglia di riscatto

Da più di un mese corre voce su una presunta imminente chiusura dell’Hard Rock Cafè di Catania, ipotesi  smentita in pieno, però, dai titolari dell’attività. Abbiamo voluto approfondire. E i dati recuperati nell’ambito della nostra inchiesta, comunque dicono chiaramente che una crisi c’è o c’è stata: circa il 50% dei dipendenti hanno rassegnato le dimissioni. Abbiamo incontrato il dottor Geraci, socio azionario dell’Hard Rock Cafè, il segretario generale provinciale Filcams-Cgil Luisa Albanella e il rappresentante sindacale dei lavoratori del locale, Giovanni Villagrasso. Cerchiamo di far luce sulla vicenda.

 

L’Hard Rock Cafè ha aperto poco più di un anno fa. E «dopo un boom iniziale c’è stato un calo. Poi ci siamo riassestati, abbiamo trovato un punto di equilibrio», dice Geraci. «A Catania ci sono le mode – prosegue il titolare – e la moda del Hard Rock Cafè adesso sembra passata. Ma noi non vogliamo chiudere. C’è la volontà nostra e soprattutto della Corporation statunitense di continuare con questo progetto».

 

Ma cosa ha causato questa crisi? E solo la moda che va e viene o c’è qualcos’altro? Giovanni Villagrasso che ha seguito sin dall’inizio il sogno “americano” sembra avere le idee chiare: «Le problematiche nascono dalla preparazione dei gestori. Essi vengono da realtà che non sono quelle della ristorazione, e quindi non hanno esperienza. Per esempio, l’opera di promozione che è stata fatta, tranne in poche occasioni, non ha avuto quella incisività e quella continuità necessarie per lanciare un locale così grande e dalle enormi potenzialità». Anche il segretario Filcams_Cgil, Albanella è d’accordo: «C’è stata un’incapacità di gestire una struttura come quella dell’Hard Rock Cafè».

Ma Geraci ribadisce che «la crisi non è attribuibile alla inesperienza dei gestori. E’ vero che noi gestori veniamo da attività lontane da questa, ma siamo in una situazione di continuo monitoraggio da parte della Corporation che ci dice se lavoriamo bene o male. Abbiamo delle regole fisse che dobbiamo seguire e le stiamo seguendo».

 

Molto si è detto e tanto si è discusso su questa vicenda. Si è addirittura ipotizzato che la Corporation volesse ritirare il marchio alla sede di Catania. Ma su questo Geraci è categorico: «Se ci avessero ritirato il marchio lei non vedrebbe l’insegna fuori del locale». E poi aggiunge: «Abbiamo ricevuto frequenti visite di inviati dalla Corporation, e in nessuna occasione sono state riscontrate irregolarità. Le presunte discrepanze all’interno del menù non sono altro che balle. Possiamo modificare in alcuni aspetti il nostro servizio, ci è permesso, ma ci atteniamo rigorosamente alle disposizioni internazionali».

 

Ma allora qual è la causa di questa crisi? Per esempio, il servizio e la disponibilità sono all’altezza delle aspettative? «Mi è capitato di ricevere delle proteste, soprattutto da parte di americani. Anche per la preparazione linguistica di alcuni colleghi. Gli statunitensi, abituati a un tipo di servizio diverso, hanno la pretesa, a mio parere giustificata, di trovare un servizio ineccepibile. Questo non succedeva: io per esempio, che sono uno dei pochi che parla inglese, sono stato spostato in cucina», racconta Villagrasso.

 

Una parte del problema sembra nascere a monte: le assunzioni sembrano essere state fatte in modo troppo affrettato: «Chi ha assunto non ha badato alla qualità del personale, ma ai vantaggi che l’azienda poteva avere dalla legge 407» (legge che prevede degli sgravi fiscali se si assume personale da tempo iscritto alle liste di disoccupazione), sostiene la sindacalista Albanella.

 

E La formazione? «La formazione è stata fatta ed è durata 10 giorni – afferma Villagrasso -. Il training è stato impostato prevalentemente sui parametri di servizio e di preparazione dei pasti. A me non è stato chiesto se sapessi l’inglese. Chi gestiva le assunzioni non ha verificato la preparazione linguistica dei dipendenti».

 

C’è poi il numero dei dipendenti inizialmente assunti, ottanta. C’è stato un sovradimensionamento? Geraci ammette: «Le persone sono state assunte in un numero esagerato volutamente, perché non si sapeva quale sarebbe stato il reale volume degli affari, qualcuno ha sbagliato. Ma ormai è inutile piangere sul latte versato».

 

Alla crisi sembra aver contribuito in maniera sostanziale anche la zona di Catania in cui è nato l’Hard Rock Cafè. «Il locale, paragonato agli altri locali, potrebbe dare di più. La considero un’ottima fucina, una miniera d’oro; purtroppo è stato aperto in un posto per nulla favorevole. La zona della pescheria e di via Plebiscito sta rivalutandosi, alcuni miglioramenti sono stati fatti, ma la location non è ancora delle migliori». Questa l’opinione di Villagrasso. I gestori sono consapevoli che avere scelto quella zona significa guardare avanti: «Aprire qui è stata una scommessa – dice Geraci -. Se i politici manterranno le loro promesse, da qui a 10 anni questa zona sarà rivalutata e sarà piena di ristoranti e alberghi, cosi come quella della Playa. Per adesso siamo penalizzati, stiamo facendo da battistrada».

 

Intanto, molti dipendenti scoraggiati dalla situazione e incentivati da un bonus hanno deciso di dimettersi. Sembra che il sogno stia svanendo. Ma sia chi lavora lì dentro sia chi gestisce il locale non intende mollare: «L’Hard Rock Cafè non chiuderà mai, noi siamo tranquilli e stiamo lavorando duro», afferma una dipendente. «Diffamare è facile, ma il sogno è ancora vivo. Noi siamo qui, per dimostrare la nostra volontà di lavorare», sostiene Geraci.  

 

Forse non ci sono dei responsabili diretti per questa crisi, ma c’è il rischio (da scongiurare) di un altro sogno che svanisca. Catania non è Orlando, e non lo sarà mai. La voglia di essere internazionali si scontra con le abitudini locali. E si sa: le abitudini sono dure a morire.

 

http://www.hardrock.com/locations/cafes/cafes.aspx?lc=CATA

 

www.filcams.cgil.it

 

 

Loredana Gravina

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