«Temo che l’Europa si appresti a muovere nuovi, gravi passi nella direzione sbagliata, ponendosi sempre più dal lato sbagliato della storia, con provvedimenti securitari, che nulla hanno a che vedere con la sicurezza, nel tentativo folle di arginare un fenomeno epocale e inarrestabile come le migrazioni e tentando di dividere gli esseri umani fra quelli di serie A e serie B». La nota con la quale il sindaco di Palermo Leoluca Orlando commenta la notizia della possibile realizzazione in Sicilia di nuovi hotspot per l’identificazione dei migranti è molto netta. Il ministro degli Interni Marco Minniti ha ribadito negli scorsi giorni la volontà del governo di realizzarne sei, tra cui uno nel capoluogo siciliano. E l’accelerazione improvvisa, pur in assenza di provvedimenti ufficiali, fa scattare la presa di posizione. «Non possiamo che manifestare la nostra contrarietà – continua il primo cittadino – pronti ad opporci in ogni sede a che la nostra città sia luogo di uno di questi centri, che certamente sono incompatibili con la nostra storia, prassi e cultura».
Negli scorsi mesi si era già parlato di questa eventualità, e ad aprile c’era stato un corteo da parte delle sensibilità antirazziste della città per dire no all’apertura dell’hotspot, che sarebbe già stato individuato in un bene confiscato ai fratelli Graviano, tra via Oreto e viale Regione Siciliana. Prefettura e Comune avevano provato a gettare acqua sul fuoco, parlando di una semplice «alternativa all’ufficio immigrazione», in una sinergia istituzionale che potrebbe rinnovarsi. Lo stesso Minniti, d’altra parte, in un’intervista al Corriere ha spiegato che si tenterà l’accordo con le istituzioni locali ma che in ogni caso «procederemo comunque». Anche il gruppo politico di Sinistra Comune, non più presente in giunta ma che a breve si insedierà all’interno del consiglio comunale, ribadisce che «si impegna a questo proposito a lavorare da subito a livello istituzionale per impedire, a partire dal blocco delle necessarie concessioni di urbanizzazione, che l’hotspot di cui parla il Ministro Minniti possa sorgere. E lancia fin d’ora una campagna di disobbedienza che porterà tanti e tante, se necessario, ad impedire costruzioni di questo tipo».
In attesa di decisioni dal vertice informale dei ministri degli Interni dell’Europa, che si tiene oggi a Tallin (capitale dell’Estonia), nella partita di scambio tra Europa e Italia quel che appare certo è la volontà del governo nazionale di chiudere almeno una serie di questioni aperte, a partire dalla paventata chiusura dei porti alle imbarcazioni delle organizzazioni non governative. «È una questione democratica, non si tratta solo di immigrazione» dice Fulvio Vassallo, docente di Diritto di asilo e statuto costituzionale dello straniero dell’Università di Palermo e componente dell’Adif (Associazione diritti e frontiere). «In uno Stato di diritto le leggi le fa il Parlamento e non il ministro dell’Interno – ribadisce lo studioso –. Anche gli hotspot non hanno una disciplina legislativa, siamo già fuori dal diritto e le misure di regolamentazione appaiono palesemente illegittime. La discussione sulla chiusura dei porti si sta trasformando nella decapitazione delle ong, che continuano a operare al posto di Frontex e della Marina militare, mentre continua il suo notevole impegno la Guardia Costiera. Anche in questo caso non c’è nessuna norma che autorizzi il controllo sulle navi che salvano le persone in mare, le regole non vengono date dal governo ma dal codice di navigazione, dal codice penale e dal diritto del mare».
Vassallo ricorda poi il caso della nave Cap Anamur che nel 2004 salvò la vita a 37 sudanesi alla deriva e finì all’interno di un contenzioso diplomatico fra Italia, Malta e Germania: ci fu un processo penale lungo cinque anni che però si chiuse con un’assoluzione. Ma il caso della nave di Medici Senza Frontiere, rimasta bloccata negli scorsi giorni al porto di Palermo, potrebbe fare scuola? «Al momento si tratta di un caso isolato – dice ancora il docente -. Il problema è capire se questo tipo di controlli vogliono tutelare la sicurezza delle persone o rallentare le attività delle ong. Se gli stessi controlli fatti alle organizzazioni non governative venissero attuati a navi e traghetti che operano dall’Isola alle isole minori, si bloccherebbe il 50 per cento del turismo a mare».
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