«Se era d’inverno andavo a Courmayeur, viaggiavo a seconda del periodo che era, tutti i carnevale me li facevo a Viareggio». Sono dieci anni di latitanza d’oro, quelli che Giuseppe Graviano trascorre dall’84 fino al suo arresto, nel ’94. Dieci anni non esattamente trascorsi nascondendosi, anzi. Sembra che il boss di Brancaccio, che da settimane parla al processo reggino ‘Ndrangheta stragista, non si facesse mancare nulla, togliendosi, quando era il caso, ogni sfizio. E, soprattutto, senza limitare i suoi spostamenti. Inclusi quelli fino a Palermo. Anzi, è proprio nella sua città che si nasconde per i primi due anni, dall’84 all’86: «Sono stato in una proprietà di mio padre a Bagheria, dove venivano spesso anche Giovanni Drago e mio cugino Salvatore Graviano. E in qualche altro appartamento, ospite di famigliari».
Poi è la volta della Sardegna: anche qui ad aprirgli senza troppi pensieri le porte dell’imponente tenuta a Muravera è il fratello di suo padre, lo zio Carmelo Graviano. Ma nei primissimi anni di latitanza gli spostamenti e i ritorni a Palermo sono quasi all’ordine del giorno. Specie nei periodi in cui i suoi fratelli vengono scarcerati e tornano a casa. «Poi ho passato il periodo ’89-’90 all’hotel Quark a Milano», dice Graviano, alludendo all’hotel di cui ha già parlato alcune settimane fa e dove avrebbe incontrato l’ex premier Silvio Berlusconi, con cui suo nonno materno, Filippo Quartararo, aveva stretto un patto imprenditoriale. «Ricordo che era uscita una canzone, la Lambada, e in hotel erano venute quelle ballerine…». Dal ’91 si sposta a Omegna e i rientri a Palermo cominciano a ridursi: «Quando stavo lì, sono sceso solo per il Capodanno – dice -. L’ultima volta che sono stato a Palermo è stato a novembre ’91, poi non mi sono più spostato dal nord Italia».
È una latitanza, la sua, all’insegna dei viaggi, in genere condivisi con fidanzata al seguito, ma anche cugini, parenti, amici. Viaggi che davvero poco fanno pensare a un boss mafioso che tenta di nascondersi. «Sono stato a Venezia, a Forte dei Marmi, a Riccione», racconta. E già settimane fa aveva rivelato quasi con candore tutte le normalità di quella latitanza dorata, dallo shopping in via Montenapoleone alle cene nei ristoranti milanesi, e poi le serate al cinema o a teatro. Omegna era la sua base, dove viveva nella pace degli angeli, mentre a Milano conduceva incontri e affari. Ma come poteva permettersi tutto questo benessere? «Ho ereditato tante proprietà da parte di mio padre – spiega -, poi continuavo a esercitare delle attività economiche anche da latitante, maiali, agricolture, queste cose. Poi ho venduto alcune proprietà di mio padre nel ’97 mentre ero detenuto, avevo fatto una procura».
I suoi affari, insomma, vanno avanti senza intoppi, a prescindere che sia un boss di Cosa nostra ricercato dalle autorità di tutto il Paese o addirittura già in manette al 41 bis. A dargli una mano per occuparsi di tutto, specie a gestire le attività di Palermo, era il fedele cugino Salvatore Graviano. A cui davano il cambio i suoi fratelli, una volta tornati in libertà. «Era mio cugino che mi consegnava il denaro, che si spostava da Palermo al nord, ogni due mesi in genere, avevamo anche una corrispondenza epistolare – racconta – e quando necessitava lui saliva. Io comunque anche al Nord seguivo delle attività economiche lecite naturalmente non a nome mio, e campavo».
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