C’era un tempo in cui ogni località del Palermitano era pervasa dal profumo e dal colore dei propri frumenti che venivano coltivati e apprezzati. In grado di conferire sapori unici, come per il pane di Monreale impastato con due varietà che rendevano il prodotto più pregiato: Giustalisa e Castiglione. Eppure in altri territori venivano pagati meno perché ogni zona privilegiava certe qualità rispetto ad altre. Così a Gangi, nelle Madonie, dove si preferiva la cosiddetta Priziusa che altro non era se non la varietà di Russello. Tutti semi antichi che oggi abbiamo preservato e che stanno tornando prepotentemente di moda. Un interesse crescente non solo da parte dei consumatori, ma anche dai produttori.
Nonostante sia ancora un mercato di nicchia – appena un migliaio di ettari su un totale di 280mila destinati alla coltivazione dei grani duri nel 2018 in Sicilia, secondo stime Coldiretti -, un fenomeno ad esso collegato riguarda la moltiplicazione dei produttori locali che chiudono la filiera producendo anche il pana e la pasta. Un numero triplicato in pochi anni e destinato a crescere perché in grado di garantire maggiori introiti. Ma perché tanto interesse? Secondo alcuni i grani antichi avrebbero un potere salutistico elevato, soprattutto rispetto ai grani moderni. Le cose, però, non sono mai così semplici, come spiega Dario Giambalvo, docente di Coltivazioni erbacee nel dipartimento di Scienze agrarie e forestali dell’Università di Palermo, che che per sua stessa ammissione si definisce «un amante dei frumenti antichi».
«C’è un grande interesse per queste varietà che effettivamente presentano delle caratteristiche che li differenziano dagli altri», riconosce Giambalvo. Innanzitutto da parte degli coltivatori che ne traggono un profitto maggiore, e ancora nel processo di coltivazione grazie a caratteristiche peculiari, come l’altezza del fusto della pianta, più elevata rispetto ai grani moderni, che conferisce loro «una maggiore abilità a competere con le erbe infestanti». Le specie moderne, invece, sono state selezionate anche per la taglia più bassa, perfetta per le esigenze dell’industria di trasformazione. Un’altra differenza riguarda il glutine: i semi moderni «presentano un tipo molto tenace, adatto ai processi di pastificazione», mentre le varietà antiche, seppur con un contenuto superiore, hanno «un glutine più debole,poco adatto all’industria di trasformazione».
Ed è proprio su questo punto che si è fatto un gran speculare affermando che le varietà più recenti, selezionate per via del glutine più tenace, possano essere in qualche modo responsabili dell’aumento di alcune patologie: non solo intolleranza al glutine stesso ma anche celiachia e allergie. «Sono ipotesi affascinanti ma attualmente non ci sono evidenze scientifiche. Le caratteristiche del glutine sono diverse, eppure sarebbe arbitrario affermare che queste patologie si siano incrementate perché sono cambiate le caratteristiche del glutine». Sicuramente i semi antichi si differenziano per i pattern sensoriali: hanno profumi, sapori e aromi che li rendono diversi, «ma se un grano moderno venisse coltivato con tecniche corrette, senza la spinta di prodotti di sintesi e l’utilizzo di diserbanti, dal punto di vista della salute non penso ci sarebbero differenze». Allora perché privilegiare le farine del passato?
«Uno dei vantaggi è che per la loro coltivazione richiedono un impiego nettamente inferiore di sostanze chimiche. Quindi, da un punto di vista salutare, ci sono maggiori possibilità che siano esenti da contaminazioni perché per natura si prestano maggiormente alla coltivazione biologica». Attualmente, uno dei grani moderni più discussi è quello canadese, al centro di un aspro dibattito per l’elevata presenza al suo interno di uno dei diserbanti più diffusi al mondo. «È vero – conferma il docente – le farine importate da quel paese hanno una contaminazione da glifosato, che viene impiegato durante la fase di pre-raccolta, mentre da noi è vietato».
Una presenza, quella nelle farine di importazione canadesi, che rimane comunque sotto i limiti di legge. «Il problema semmai è il modo in cui queste soglie vengono stabilite – sottolinea – Nonostante la presenza sia nei limiti previsti, a lungo andare proprio l’accumulo di queste sostanze nel nostro organismo potrebbe fare differenza, tenuto conto dell’elevato consumo che facciamo di prodotti realizzati con questi semi. Tant’è che secondo alcuni – conclude – l’aumento delle patologie glutine-correlate sia legato anche all’aumento delle sostanze chimiche utilizzate nei processi di produzione».
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