Meridionale, con una laurea in tasca e un forte legame alla terra di origine. E sempre più donna. È l’identikit del migrante italiano fotografato dal Rapporto Svimez 2011 sull’economia del mezzogiorno. Un esodo che fa perdere al sud 3-4 punti percentuali di Pil ogni anno.
«L’emigrato del 2011 ha due caratteristiche principali – spiega Luca Bianchi, vicepresidente dell’Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno – : possiede un titolo di studio mediamente elevato e si sposta secondo una nuova modalità, che noi chiamiamo pendolarismo di lungo raggio». A differenza del passato, cioè, i giovani non si stabilizzano al Nord con una scelta definitiva, perchè il contratto a tempo indeterminato è un sogno, ma tornano spesso a casa, dove a volte hanno lasciato la famiglia. Il 54% è partito con un diploma o una laurea, mentre un migrante su due è donna. «Le ragazze, omai nella stessa percentuale dei ragazzi, vanno dove c’è lavoro» aggiunge Bianchi.
Ascolta l’intervista al vicepresidente dello Svimez, Luca Bianchi:
Nel 2009 si sono trasferiti dal Mezzogiorno al centro-nord 109mila abitanti, di cui 23mila e 700 provenivano dalla Sicilia, seconda regione dopo la Campania per numero di partenze.
Negli ultimi dieci anni le regioni del Sud hanno perso 580mila giovani. Da Catania se ne sono andati in 10mila. Lombardia ed Emilia Romagna le regioni di destinazione preferite, mentre torna ad aumentare il numero di chi, sopratutto titolare di un master, sceglie l’estero. Germania e Inghilterra le mete più frequenti, ma «c’è chi arriva persino in Sudamerica, area di attrazione in grande crescita».
«In questa fase storica il Sud sta perdendo il 30% dei suoi laureati – continua Bianchi – che equivale a 3-4 punti percentuali in meno ogni anno sul Prodotto interno lordo. Nei prossimi anni avremo più anziani da assistere e meno giovani che producono». Ma non si tratta solo di produttività bruciata. «I ragazzi che se ne vanno sono quelli che avrebbero garantito una crescita sociale e civile delle loro terre. Inoltre il fatto che mantengono i rapporti con il territorio significa che sono interessati, se ci fossero le possibilità, a rimanere e contribuire alla crescita di quel territorio».
Sono due, secondo l’analisi dello Svimez, gli aspetti su cui concentrarsi per provare ad arginare il fenomeno. «Serve riattivare politiche di sviluppo, basate non su sistemi clientelari, ma focalizzate su attività che richiedono un capitale umano qualificato. Pensiamo all’energia, le rinnovabili e l’innovazione. E poi sono indispensabili politiche pubbliche a favore dei giovani, a cominciare dal riassetto del sistema del welfare. Vanno riviste le pensioni a favore di un maggiore accompagnamento dei giovani nella fase di passaggio dal titolo di studio al primo lavoro». E concude Bianchi: «Ci toccherà passare attraverso un inevitabile conflitto generazionale se vogliamo creare sviluppo. Gli interessi dei giovani non corrispondono a quelli delle altre generazioni».
[Foto di Annalù]
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