Giornalismo e pregiudizi, il caso rom A Cagliari un workshop contro l’Hate speech

Sono venuti da tutta Europa, a Cagliari, con un obiettivo comune: eliminare il razzismo nel linguaggio dei media. Gli inglesi lo chiamano Hate speech, letteralmente discorso d’odio, ed è un tema di primo piano in tutto il continente, dove i movimenti xenofobi hanno un grande seguito. Tre giorni di incontri e dibattiti, pianificati dall’organizzazione non governativa lituana Media4change, che ha tra i partner anche Arci Catania, alla quale hanno preso parte in venticinque tra professionisti dell’informazione e volontari delle organizzazioni per la difesa dei diritti umani, provenienti da Bulgaria, Danimarca, Grecia, Italia, Lituania, Lettonia, Olanda, Romania, Repubblica Ceca e Spagna. Che si sono anche ritrovati in una stanza, per un gioco di ruolo.

«Siete divisi in tre gruppi: il primo è la polizia, che ha preso in custodia una donna Rom e una bambina. Il secondo impersonerà i clienti di un centro commerciale, che hanno appena avuto uno scontro con il terzo gruppo, formato dai parenti della donna Rom». Il compito dei presenti è anche quello di riportare la notizia, parlando con le fonti: i clienti accusano la donna del tentato rapimento della bambina. La polizia le ha prese entrambe in custodia, tentando di placare le proteste. Un esperimento sociale piú che un gioco, ideato per confrontare le diverse sensibilità e abitudini dei media europei da un giornalista inglese, Mike Jempsen, moderatore delle tre giornate. Ha oltre quarant’anni di esperienza e nel 1992 ha fondato l’associazione Mediawise, letteralmente media saggi, per promuovere un giornalismo etico nel Regno unito, dove molto prima degli altri paesi europei la società ha dovuto affrontare i problemi dell’integrazione. «La polizia ha arrestato tre persone, compreso un giornalista. Gli agenti negano che ci siano feriti, ma dal nostro punto di osservazione è possibile vedere un uomo di etnia Rom insanguinato», scrive Irina, che lavora per la Radio pubblica bulgara, nel suo report al termine della simulazione. Scatenando il dibattito.

Neringa Jur?iukonyt?, (Lituania), direttrice del Nsii, organizzatrice dell’evento 

«Non è obiettivo, metti in cattiva luce la polizia con un commento personale», fa notare Vicky, che lavora per un importante tv inglese, Channel 4. «Per me il suo report è perfetto, proprio per lo stesso motivo», ribatte Aslan, che divide la sua attività professionale tra Repubblica Ceca, Russia e Cecenia. «Tutti parlano dei Rom, ma nessuno parla con i Rom», fa notare Eric Heinze, professore di Legge all’università Queen’s Mary di Londra, uno dei relatori della tre giorni. «E’ una giusta osservazione, la nostra missione come Media4change è quella di dare una voce alle persone che non ce l’hanno, perché fuori dall’agenda dei media», concorda Neringa Jur?iukonyt?, direttrice della Ong lituana Nsii, e organizzatrice del workshop. «Giornalismo e difesa dei diritti umani sono due cose diverse, non si può chiedere a un giocatore di rugby di giocare a calcio. Non siamo i maestri della società, ma solo quelli che la raccontano», risponde Shyama, giornalista della Cnn, che porta la sua testimonianza di integrazione – è nata in una famiglia asiatica -, a supporto della sua posizione. «In Bulgaria cerchiamo di dare alle cose il proprio nome: se un immigrato è entrato illegalmente, non c’è nulla di male a scrivere che è un immigrato clandestino», interviene Ivan, che lavora per un grande quotidiano di Sofia. A tirare le fila del discorso è Mike Jempsen. «Penso ai giovani giornalisti in Inghilterra, che vogliono scrivere solo di gossip o sport, perché è quel che vedono ogni giorno. In altri paesi la stampa è invece molto politicizzata. Guardare fuori dal proprio Paese è davvero difficile, ma è questo l’obiettivo».

Su un punto, i presenti, sembrano concordare: è proprio il Regno Unito il modello a cui guardare per il resto d’Europa. Una società multietnica dove, nella capitale Londra, il 27 per cento dei lavoratori è di origini straniere. E dove, dopo decenni di tensioni e proteste, vi è una legislazione che permette la libertà di espressione al massimo livello, globalmente, proteggendo le minoranze dalla discriminazione. «Ma le persone hanno ancora grandi pregiudizi e i giornali sono molto populisti», avverte Mike. «La televisione in Regno Unito è ben regolamentata, e manda messaggi di tolleranza. Non è così per la stampa, che è completamente libera». Libera di scrivere anche il falso, come in un caso emblematico, apparso sul Sun, il quotidiano più venduto con oltre tre milioni di copie, nel 2003. Un gruppo di cittadini stranieri di cultura Rom, secondo la fantasiosa ricostruzione, avrebbe sistematicamente catturato i cigni in un grande parco londinese, per poi cuocerli arrosto e mangiarli. Nell’opinione pubblica britannica si scatenó un dibattito, con una vera gara tra i tabloid nel pubblicare storie, altrettanto false, di altri animali in pericolo. Il compito di Mike e della sua associazione è stato quello di fornire una versione dei fatti aderente alla realtà, come supporto alle vittime del pregiudizio e della discriminazione. Mike lo chiama «detective journalism», e gli dà un grandissimo valore, perchè alla base della vera professione giornalistica. «Tanti giornalisti sono andati in prigione nel Regno Unito, hanno rotto le regole per difendere la libertà di stampa. Queste sono cambiate, ma siamo in attesa di una legge che tuteli maggiormente le minoranze dai giornali populistici dei grandi gruppi editoriali», conclude Mike Jempsen.

Leandro Perrotta

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