Garibaldi, l’anti-mito

«Niente può esser fatto senza di lui, molto poco, temo, con lui». Così Giuseppe Mazzini nel 1860 riassumeva il destino tragico della storia della, mancata, unità italiana. Una tragedia raccontata dalla memorialistica dei garibaldini da una parte, e dall’anti–storia degli scrittori siciliani dall’altra, «due fondali disposti a contrasto, l’uno sgargiante e l’altro monocromo», secondo il prof. Antonio Di Grado, relatore dell’incontro dal titolo “Garibaldi: il mito e l’anti-mito tra nord e sud”, inserito all’interno del Mitifest 2010 della Facoltà di Lettere e Filosifia di Catania.

E sgargiante era, certamente, il fondale della memorialistica garibaldina, colorato sì, ma di toni che non furono frutto di studiate policromie propagandistiche, bensì di delicate e spontanee tinte, che Gianni Stuparich, antologizzando questi scrittori nel 1946, non esitò a definire «senza veli», colte nella loro «modesta essenza», nel loro «candore», un candore forse fanciullesco, ma del fanciullo che in una famosa fiaba grida alla piazza che il re è nudo.
La nudità qui è fatta di terribili momenti descrittivi che il professore Di Grado definisce «quasi stendhaliani»: ecco allora i campi devastati, le case distrutte, i corpi martoriati; la guerra spogliata della sua veste più edificante, appare per quella che intimamente è, e che Giuseppe Bandi, garibaldino della prim’ora, riassume in un terribile epigramma: «La bell’arte di ammazzare l’amato prossimo».

Ma l’ironia terribile dei Giuseppe Cesare Abba e degli Alberto Mario, la loro memorialistica goyesca e oscura, sarà condannata ben presto all’oblio, imposto come un veto da Francesco Crispi che, per Di Grado, impadronendosi della «gestione della memoria di Garibaldi convertì in politica quel mito e in prosa quella poesia giacobina e romantica, religiosa e anticlericale, sepolcrale e quaresimale fino al limite dell’apoteosi vittimistica della sconfitta e del martirio». Era il revisionismo strisciante e utilitaristico, che trasformò quelle memorie in un «neorealismo agiografico e pedagogico obbediente alle estetiche di partito».

E accanto al variopinto scenario dei garibaldini, ecco quello monocromo e notomizzante degli scrittori siciliani, pronti a rivelare con amara lucidità la vera direzione di quel Risorgimento «tradito», opponendo «la fiera declamazione dell’identità e lo scettico controcanto della demistificazione» alla facile demagogia propagandistica sulle “magnifiche sorti e progressive” di cui si servono ancor oggi politicanti e populisti interessati. Ecco dunque la novella “Libertà” di Giovanni Verga, lucida lettura dei tragici avvenimenti di Bronte, nella quale si prendono le distanze sia dall’insensato massacro di Bixio sia dall’ingiustificata furia della folla contadina; ecco il Garibaldi “addomesticato” e strumentalizzato delle declamazioni dell’élite politica multiforme e cangiante dei “Vicerè” di De Roberto; ecco il Mauro Mortara dei “Vecchi e i giovani” di Pirandello, la camicia rossa custode dei sogni risorgimentali, ucciso per errore (e con lui lo spirito del garibaldinismo puro) dagli stessi soldati italiani verso cui era corso in aiuto contro i Fasci insorti; ecco, infine, Leonardo Sciascia e il suo racconto lungo “Il Quarantotto”, con il povero contadino siciliano che continuerà ostinato a seguire Garibaldi, nonostante la sua palese frequentazione coi grandi latifondisti, il simbolo di un disinganno che non è riducibile a semplice, vischioso, pessimismo, ma a continua «vigilanza critica», instancabile nel suo sfatare le mitologie che il potere costituito crea o manipola.

Noi, come il contadino di Sciascia, non possiamo far altro che continuare a seguire Garibaldi, «e a sognare la sua Italia che —purtroppo— non c’è ancora».

Gherardo Fabretti

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