Gabriele Pepe e la prima Sinistra liberale

1. Un nuovo studio su Pepe.

Gabriele Pepe (1899-1971), nato a Monopoli in provincia di Bari, ebbe un ruolo ed una certa notorietà negli anni Quaranta del Ventesimo secolo, in un periodo cruciale per la nostra storia nazionale. Non fu un capo politico, ma un intellettuale impegnato nel dibattito pubblico; capace di svolgere in modo credibile una funzione di orientamento per il livello qualitativo e la frequenza dei suoi contributi. Scrisse qualificandosi liberale e, inizialmente, operò come rappresentante del Partito liberale italiano (PLI); su designazione di questo partito fece parte della Consulta Nazionale, istituita con decreto legislativo luogotenenziale 5 aprile 1945, n. 146.

E’ merito di Cosima Nassisi, docente di Storia Contemporanea nell’Università del Salento, aver ricondotto l’attenzione su Pepe, con il libro “Gabriele Pepe e la Sinistra liberale” (Lecce, Pensa Multimedia Editore, 2012, pp. 251, prezzo di copertina € 22,00).

Il libro è articolato in tre capitoli. Il primo è titolato “L’umanesimo cristiano di Gabriele Pepe”. Il secondo, titolato “Perché non sono un conservatore”, prende spunto da un articolo di Pepe con il medesimo titolo, pubblicato nel settimanale “La Città libera” del 2 agosto 1945. In questo capitolo si ricostruisce l’attività pubblicistica di Pepe e, in particolare, si spiega il senso della sua iniziativa di dar vita ad una rivista teorica, “Ethos”, che si prefiggeva di far collaborare studiosi che rappresentassero il pensiero liberale, nella ricca varietà delle sue articolazioni. Più in generale, la rivista, nata come mensile, che si stampava a Roma ed il cui primo numero uscì nel mese di settembre del 1945, intendeva aprirsi a nuove esigenze culturali, sempre però con l’intento di salvare e di conservare una «tradizione di umanesimo, di laicismo, di tolleranza»; tradizione che serviva anche a stimolare «un’esperienza attiva di antifascismo» (1). Tra i giovani collaboratori di “Ethos”, va ricordato Raffaello Franchini (1920-1990), il quale, nell’ottobre del 1945, sosteneva che il laicismo coincidesse con lo «storicismo assoluto».

Il terzo capitolo è quello per cui il lavoro della Nassisi è particolarmente meritorio e ricco di utili spunti per gli studiosi: “«Civiltà liberale»: per una storia della Sinistra liberale”. Il settimanale “Civiltà liberale”, fondato e diretto dallo stesso Gabriele Pepe, con lo scopo di essere strumento di commento dell’attualità politica, fu un periodico romano, inizialmente stampato presso la Tipografia del quotidiano “Il Giornale d’Italia”. Uscirono, complessivamente, ventitrè numeri del periodico: dal numero 1 del 27 dicembre 1945, al numero 23 del 29 giugno 1946.

La professoressa Nassisi ha riesumato questa testata, che davvero pochi conoscono, e così facendo ha reso il miglior servizio a Pepe ed a quanti operarono insieme a lui nella vicenda del gruppo che per primo adottò la denominazione di “Sinistra liberale”.

2. Il ruolo del Partito liberale nella crisi del Governo Parri.

Adolfo Omodeo, il quale dal 1928 al 1944 era stato il più assiduo e significativo collaboratore di Benedetto Croce nella redazione della rivista “La Critica”, aderì al Partito d’Azione e fondò una propria rivista, il mensile “L’Acropoli”, il cui primo numero uscì nel mese di gennaio del 1945. Proprio ad un pensatore di cultura liberale, oltre che eminente storico, quale fu Omodeo, si deve la più severa ed argomentata critica che sia stata mossa alle scelte politiche del PLI. Si legga l’articolo “Il così detto Partito liberale e la crisi del novembre 1945”, pubblicato ne “L’Acropoli”, n. 11 del 1945. Il Partito liberale, il cui Segretario nazionale era allora Leone Cattani (1906-1980), si era caratterizzato: a) per aver insistito in maniera ossessiva sul pericolo che in Italia potesse instaurarsi una dittatura comunista; b) per aver contrastato nei fatti l’applicazione delle disposizioni di legge volte ad epurare l’apparato dello Stato e le amministrazioni pubbliche dai funzionari colpevoli di dovere la propria carriera al loro attivo sostegno del regime fascista; c) per avere teorizzato che «un regime libero è ugualmente possibile in repubblica o in monarchia costituzionale», affermazione vera in astratto, ma che, alla luce della più recente storia italiana, rappresentava un oggettivo sostegno alla screditatissima Casa regnante dei Savoia. Ora, in «odio contro il Partito d’Azione», il PLI decideva unilateralmente di uscire dal Comitato di liberazione nazionale, dichiarando conclusa la fase della collaborazione fra i sei partiti nel CLN, in modo da provocare la caduta del Governo presieduto da Ferruccio Parri.

L’articolo meriterebbe di essere letto per intero, ma valga la conclusione di Omodeo: «Nell’asilo liberale la feccia di Romolo ha ricusato di avere il sigillo della repubblica di Platone. Questa la storia sciagurata di un gruppetto di “abili”, i quali hanno vagheggiato d’industrializzare per fini politici la dottrina di Benedetto Croce. … Gli “abili” hanno abbassato la religione della libertà (che è passione ancora remota da ogni applicazione immediata e deve integrarsi con l’intuito delle situazioni, con capacità tecniche, con interpretazioni dell’opinione pubblica) in uno sciapo dottrinarismo che, appunto perché meccanico e vacuo, è potuto degenerare nel suo contrario. … Tale il partito che si vanta erede del conte di Cavour, il quale creò l’Italia con le audaci riforme, con le mosse risolute, con la franchezza sbalorditiva. E’ proprio il caso di ripetere con il padre Dante: “Rade volte risurge per li rami l’umana probitate”» (2).

Nella chiusa, Omodeo affermava maliziosamente che i liberali avrebbero fatto bene ad adottare il «vecchio motto tedesco: “Gott will Recht”». E’ un gioco di parole, nel senso che il motto è polisenso. Potrebbe tradursi: Dio vuole ciò che è giusto; ma, nel linguaggio politico, significa: Dio vuole la Destra.

3. Polemica anticlericale.

Non è casuale che la tendenza di sinistra all’interno del PLI, che fino a quel momento si era contraddistinta per una presa di posizione netta a favore della repubblica, decidesse di dotarsi di un proprio strumento di comunicazione, appunto il settimanale “Civiltà liberale”, «all’indomani della caduta del governo Parri e della formazione del primo gabinetto De Gasperi», come ha bene messo in evidenza la Nassisi (3).

L’alternativa fra istituzione della repubblica o conservazione dell’istituto monarchico, infatti, non era l’unico motivo di frattura fra i liberali. C’era la diffusa consapevolezza che il nuovo partito dei cattolici, la Democrazia Cristiana, avrebbe potuto raccogliere nella società italiana un consenso superiore a quello, già notevole, del Partito Popolare di Don Sturzo nel primo dopoguerra. Tale prospettiva poneva con forza l’esigenza di difendere la concezione liberale della laicità dello Stato, perché era facile prevedere che la Democrazia Cristiana avrebbe subìto l’influenza delle più alte gerarchie della Chiesa Cattolica. Questa problematica, invece, veniva sfumata e posta in secondo piano da quanti ritenevano non si potesse prescindere da un’alleanza politica con la Democrazia Cristiana, in funzione anticomunista. La politica ha una sua razionalità; si comprende, dunque, perché l’azione condotta dalla maggioranza del PLI portasse alla sostituzione al vertice del Governo di un uomo appartenente alla tradizione liberaldemocratica, Parri, considerato però troppo debole nei confronti dei socialcomunisti, con il leader della DC, Alcide De Gasperi. I politicanti del PLI avevano sperato di poter manovrare per dare la Presidenza del Consiglio dei Ministri a Francesco Saverio Nitti, o a Vittorio Emanuele Orlando, o magari ancora ad Ivanoe Bonomi. Avevano finito, loro malgrado, per spianare la strada a De Gasperi. Il quale, comunque, dal loro punto di vista, li garantiva più di Parri.

Tra i liberali, erano più preoccupati dell’egemonia cattolica proprio coloro che, per la propria sensibilità personale, o per gli studi cui si erano dedicati, prendevano veramente sul serio il Cristianesimo. Non è un paradosso: chi abbia chiara coscienza del significato del messaggio cristiano non può non provare disgusto nei confronti della logica dell’alleanza fra trono ed altare, con tutte le transazioni molto “mondane” che da quest’alleanza discendono.

Il pensiero va, in primo luogo, ad Adolfo Omodeo, docente di Storia della Chiesa nell’Università di Napoli, con una vastissima produzione di studi sul Cristianesimo delle origini. Il saggio di Omodeo “Totalitarismo cattolico”, pubblicato ne “L’Acropoli”, n. 9 del settembre 1945, costituisce uno dei momenti più alti della pubblicistica di ispirazione liberale di quel periodo. Merita di essere ricordato l’incipit: «Nessuno dovrebbe ignorare, credo, che il primo e più antico totalitarismo è quello della Chiesa Cattolica. La Chiesa è cattolica, cioè universale, ma la sua universalità non è tale da esaurire senza residuo l’umanità. Chi è fuori della Chiesa è fuori della salute [Nota nostra: ossia, della salvezza], è fuori della grazia speciale che accompagna il credente, è in sostanza al bando dall’universalità umana. La Chiesa, parte dell’umanità, rivendica per sé il diritto e il vanto della totalità. Naturalmente questa rivendicazione della totalità massiccia e materiale ebbe le conseguenze della persecuzione degli increduli, degli eretici, degli scismatici, e allora gli uomini sentirono le prime avversioni per ogni forma di totalitarismo, intesero che l’universalità ideale può manifestarsi anche in un singolo condannato escluso dalla Chiesa, sia Galileo sia Giordano Bruno, e scoprirono che la verità non è materiale deposito, ma conquista dello spirito» (4).

Omodeo, di dieci anni più anziano di Gabriele Pepe, ne fu guida e sostegno nel campo degli studi. Un piccolissimo esempio: il 24 novembre 1940, Omodeo scriveva all’Editore Giulio Einaudi: «alla fine del mese le giungerà il manoscritto del prof. Gabriele Pepe sul “Medio Evo barbarico d’Italia”. A me e al Croce è parso un lavoro eccellente» (5). E’ chiaro quanto una così autorevole presentazione servisse a spianare la via ad uno studioso allora ancora poco noto. A quel tempo Pepe era docente di lettere italiane e latine nel Liceo scientifico di Roma. Nei vent’anni precedenti aveva insegnato in sei sedi diverse (Sessa Aurunca, Montecassino, Assisi, Palermo, Jesi, Terni) (6).

Pepe fu forse l’allievo di Omodeo a lui più simile, per l’importanza data alla problematica religiosa e per un laicismo militante, che anche nei momenti di più accesa polemica anticlericale si manteneva sempre sinceramente rispettoso del ruolo storico del Cristianesimo.

L’anticlericalismo, che sembrava superato con la fine del potere temporale del Papato e con la liberale legge “delle guarentigie” (legge 13 maggio 1871, n. 214), riprese vigore in Italia, soprattutto in relazione a due fatti storici. Primo avvenimento in ordine cronologico: i Patti Lateranensi, stipulati l’11 febbraio 1929 tra la Santa Sede e l’Italia, allorquando la Chiesa Cattolica diede la propria autorevolissima benedizione, cioè legittimazione, al regime fascista, suscitando lo sdegno degli antifascisti ed anche la forte critica di quegli stessi fascisti, come Giovanni Gentile, che avevano un’idea alta dei compiti dello Stato. Secondo avvenimento in ordine cronologico, ma di non minore importanza del precedente: la guerra civile in Spagna, quando influenti Ordini religiosi, come i Gesuiti, parteggiarono apertamente per il franchismo, sostenuto militarmente dall’Italia di Mussolini e dalla Germania di Hitler. Si potrebbero richiamare altri fatti, ma i due citati già bastano ed avanzano.

Nel corso dell’anno 1945 Pepe pubblicò quattro libri, che testimoniano l’impegno senza riserve profuso nell’attività pubblicistica: 1) “La crisi dell’uomo” (Roma, Capriotti); 2) “Le insidie della parola” (Roma, Nuove Edizioni Italiane); 3) “Antifascismo perenne” (Roma, La Bussola); 4) “Il Sillabo e la politica dei cattolici” (Roma, Capriotti).

Il quarto libro, nel riportare le proposizioni del Sillabo, risalenti al 1864, non intendeva rinfocolare vecchie polemiche, ma tendeva invece a dimostrare come il corso della Storia avesse costretto le realtà sociali che si riconoscono nel Cattolicesimo a muoversi «verso un’intesa col mondo moderno». Valga il commento di Pepe alla ottantesima proposizione del Sillabo: «Alleandosi al fascismo, la Chiesa aveva creduto di poter combattere il liberalismo e le forme socialistiche e democratiche che sembravano mettere in forse il cattolicesimo stesso; nel fascismo trovò un’apparenza di reviviscenza di medievali legami tra Stato e Chiesa (la dottrina dello Stato etico piaceva e non piaceva) e soprattutto un docile firmatario di concordati. Ma quando la Chiesa assisté alla successiva opera di disumanizzazione del mondo cui portavano fascismo e nazismo, capì finalmente quanta profonda distanza separasse liberalismo e democrazia dal fascismo, come cioè nella libertà e nella separazione liberale la Chiesa celebrasse la sua libertà e rifiorisse liberamente in libere coscienze, mentre invece l’ultima prova di una religione imposta e assolutamente regnante in uno Stato moderno si svelava un tranello per la Chiesa stessa. Ripudiando nazismo e fascismo e alleandosi con le moderne democrazie nella difesa dei valori liberali e democratici, la Chiesa ha ritrovato in essi il loro potente afflato cristiano. Il Papa Pio XII ha riconosciuto nel Natale 1944 il torto del Sillabo e si è riconciliato con la libertà: cosa che non può non farci immenso piacere perché, quanto più sinceramente la Chiesa e i partiti politici che dal suo insegnamento etico traggono i loro principii ideologici aderiscono alla moderna civiltà, messo da parte ogni machiavellismo, tanto più vigore acquista la libertà stessa diventando veramente l’anima della nostra civiltà» (7). Si noti l’intento dialogante; ma questo scritto di Pepe risale alla parte iniziale del 1945.

Erano ancora lontani i lavori dell’Assemblea Costituente, quando un’intesa fra Democrazia Cristiana e Partito Comunista avrebbe sancito l’inclusione dei Patti Lateranensi nella Costituzione repubblicana. Decisione che Benedetto Croce, nella qualità deputato della Costituente, l’11 marzo 1947, definì «uno stridente errore logico e uno scandalo giuridico» (8). Va segnalato, in questo libro del Pepe del 1945, che egli, da buon seguace dello storicismo crociano, aderisse ad una concezione dialettica della realtà: il contrasto ideale è fecondo e serve, non soltanto a fare avanzare il corso della Storia, ma anche a rendere più consapevoli, a far crescere culturalmente e spiritualmente, le due parti in contrasto. Questo il senso delle seguenti affermazioni di Pepe: «L’anticlericalismo è lo stimolo che punge continuamente il pensiero conformista a rivedere se stesso, a chiarificare le sue posizioni di fronte alle esigenze della società laica. Uno stretto nesso lega il liberalismo laico, anticlericale, al rinnovamento ideologico del cattolicesimo» (9). Accettando questo punto di vista, ne discende come logica conseguenza che lo sviluppo del “cattolicesimo liberale” sia favorito dal manifestarsi di un contrasto netto fra la critica anticlericale e la riaffermazione rigida delle posizioni tradizionali da parte delle gerarchie ecclesiali.

4. Il liberalismo di Pepe ai tempi di “Civiltà liberale”.

Di fronte al pericolo di una «conquista clericale» dell’Italia, Pepe ed i liberali di sinistra che condividevano la sua analisi avvertivano l’esigenza di una risposta politica più ampia, in ogni caso non limitata alle possibilità del solo Partito liberale. Egli scriveva nell’articolo “Chiesa e politica”, del 28 marzo 1946: «C’è un sol modo di difendersi: un’unione dei partiti laici che possa domani o governare con i social comunisti o costituire una seria opposizione all’ingerenza clericale. La cosa è troppo evidente perché si debba ancora parlarne: ma noi vorremmo che gli uomini politici laici, da Parri a Pacciardi a Molè a Brosio, si rendessero conto che se essi non raggiungono l’accordo, chi godrà del loro dissenso sarà il clericalismo. Naturalmente, accanto a un’intesa laica liberale repubblicana si avrà un blocco moderato monarchico, il cui destino, lo vogliano o no i suoi più intelligenti cervelli politici, dovrà essere quello di fiancheggiatore della Democrazia Cristiana così come la monarchia si appoggia disperatamente alla Curia» (10).

Gli uomini politici richiamati sono: 1) Ferruccio Parri, che nel febbraio del 1946 aveva lasciato il Partito d’Azione insieme a Ugo La Malfa ed alla componente liberaldemocratica di quel partito, fondando il “Movimento della democrazia repubblicana”; 2) Randolfo Pacciardi, leader del Partito repubblicano (PRI) storico; 3) Enrico Molè, esponente della tendenza di sinistra del Partito democratico del lavoro (PDL); 4) Manlio Brosio (1897-1980), il più autorevole liberale di tendenza repubblicana, già collaboratore del periodico “La Rivoluzione Liberale” di Piero Gobetti, già Segretario nazionale del PLI (fino al dicembre del 1944), al tempo Ministro della Guerra nel primo Governo De Gasperi.

In altri termini, i liberali di sinistra di “Civiltà liberale” sollecitavano una scomposizione dei partiti laici esistenti e la loro ricomposizione in due blocchi omogenei: da un lato «l’intesa laica liberale repubblicana», collocazione naturale dei liberali di sinistra medesimi; dall’altro lato un «blocco moderato monarchico», collocazione naturale di buona parte dei liberali del PLI.

Prima di proseguire nell’esame delle vicende storiche, è opportuno approfondire le caratteristiche della concezione del liberalismo propria di Pepe. Ci sembra particolarmente significativo, al riguardo, l’articolo “La religione della libertà”, pubblicato il 13 aprile 1946, quando ormai la scelta della scissione dal PLI era maturata: «Se mi chiedessero quando rinacque in Italia il liberalismo, io non direi la data del 25 luglio [Nota nostra: del 1943] né quella della lotta clandestina: allora si formò il partito liberale, si elaborarono quadri e programmi; ma il risorgere del moto liberale avvenne negli anni del trionfante fascismo quando una voce pacata, ma combattiva, difese da Napoli la causa che sembrava perduta. Parafrasando un noto verso di Lucano, possiamo dire: agli dei avversi alla povera Italia era piaciuta la causa dei vincitori della reazione e dell’oscurantismo, a Benedetto Croce piacque la causa dei vinti, la causa della libertà sconfitta e derisa. Fu una lotta che il pensiero libero sostenne, per mezzo suo, con la tirannide che raggiunse il suo culmine quando nel 1938 all’Italia stanca e che avvertiva l’avvicinarsi di un tremendo temporale, Benedetto Croce diede “La storia come pensiero e come azione”: sembrava che vi si parlasse di metodologia storica, di documenti, di filologia, di vecchi storici; e invece il libro era l’esaltazione della libertà, il vero manifesto del liberalismo ormai risorto nelle coscienze degli uomini oppressi» (11).

Rispetto alla vastissima produzione crociana, il libro “La storia come pensiero e come azione” è l’opera in cui con maggiore radicalità Croce espose la propria filosofia esclusivamente rivolta alla dimensione dell’immanenza e negatrice di ogni ipotesi di Trascendenza. Fino ad affermare che «il Dio trascendente è straniero alla storia umana» (12) e che «la trascendenza, con l’annessa rivelazione, è prodotto dell’immaginazione» (13). Croce non voleva, però, un’umanità incapace di slanci ideali, intenta a coltivare il proprio “particulare”, preda dell’epicureismo e dell’edonismo. Da qui il significato positivo che attribuì al termine “religione”, che anzi acquistava un’importanza decisiva nel contesto di quella storia che il filosofo chiamò “etico-politica” e che, com’è noto, tende proprio a valorizzare il ruolo storico delle forze morali e delle forze religiose. Ne “La storia come pensiero e come azione” così egli definisce l’azione “religiosa”: «l’azione morale che trascende la vita fisiologico-economica dell’individuo e la piega e l’adopera e la sacrifica all’universale, può ben dirsi religiosa» (14).

Una volta concepito in questo modo il concetto di religione, ne derivava che il medesimo termine potesse essere riferito anche ad una concezione politico-ideale integralmente laica, tendente a dare agli esseri umani modelli di reggimenti politici coerenti con una data visione dell’organizzazione sociale e dell’attività economica. Era appunto il caso del liberalismo: «Se la religione è e non può essere altro che una concezione della vita con un corrispondente atteggiamento etico, il liberalismo è una religione, e come tale è stato sentito e pensato dai suoi seguaci, come tale ha ispirato entusiasmi di fede ed ha avuto apostoli e martiri, come tale è stato trattato dai suoi avversari che l’hanno accusato di negazione delle loro particolari religioni, eresia delle eresie, ultima e radicale forma dell’eresia protestante, e in altrettali modi. Certo la sua è una religione critica, che della critica si alimenta e si afforza, e con la critica si difende e protegge, e tende alla pura verità» (15).

Si comprende perché Croce insistesse nel dare una connotazione etico-politica al liberalismo. Era un modo per evidenziarne il carattere di pensiero non definito una volta per tutte, ma in continuo svolgimento, pronto a misurarsi con le sempre nuove sfide portate dal divenire storico. Fedele soltanto all’esigenza di promuovere la libertà umana e di salvaguardarla con l’individuazione di regole istituzionali e giuridiche, che fossero efficaci nel momento storico e nel particolare contesto sociale e culturale in cui di volta in volta venissero ad inserirsi. Il liberalismo non si esauriva, quindi, in una serie di regole di diritto costituzionale, né in alcuni princìpi di politica economica; ma aveva in sé le potenzialità per andare oltre le caratteristiche che aveva assunto nel corso storico, e per impegnarsi in una lotta nuovamente vittoriosa contro i suoi avversari ideali, i quali avevano ora le disumane sembianze dei regimi totalitari. Più discutibile, invece, è la pretesa di ampliare il significato del termine “religione”, fino ad includervi il liberalismo ed altre consimili concezioni politico-ideali. Tale tendenza ci sembra porti unicamente a confusione concettuale, senza alcun vantaggio reale. Nel tempo, Pepe avrebbe maturato le medesime conclusioni.

Al riguardo, ci sembrano profonde le seguenti considerazioni che Pepe scrisse in un saggio del 1948, titolato “Problemi della politica e dell’educazione in Francesco De Sanctis”: «Ci sono due modi di parlare di religione: il tradizionale, per cui esiste la religione come senso del trascendente, come legame all’eterno, come problematica dell’esistenza di Dio, dell’oltretomba, della grazia; e un modo leggermente untuoso e farisaico e, certo, lessicalmente improprio, per cui religione, o religiosità come si dice con più prudenza, sarebbe quel legame con l’Assoluto immanente, con la storicità del reale, con il senso umanistico del creato che mutua dalla religione tradizionale certi caratteri come la fede, la serietà morale, l’abbandono fiducioso. Si piglia insomma dalla religione tutto ciò che essa ha di positivo e se ne indora il nostro immanentismo, il nostro laicismo, il nostro liberalismo; e si ha religiosità della libertà, del laicismo, del liberalismo e, perfino, del socialismo. […] E’ troppo comodo dirsi religiosi e disinteressarsi del problema tremendo della grazia, che sgomenta le anime religiose più che il problema della riforma agraria non sgomenti il ricco. Non confondiamo menti e lingue a parlare di religiosità laica; faremo gli interessi del clericalesimo che sul piano della religiosità ci batte, perché la nostra religiosità è retorica e farisaica, mentre nel suo residuo cristianesimo perfino il cattolico ritrova il divino come noi non riusciremo mai. Ogni educazione religiosa non può mirare che alla santità. […] la santità è il risultato di un’educazione che porta il fine della vita fuori della vita stessa, che rinnega natura, carne in una mortificazione ascetica contro cui si ribella la coscienza laica» (16).

Nell’articolo titolato “Amichevole risposta”, del 27 dicembre 1945, Pepe forniva chiarimenti «di carattere teoretico» sul modo di intendere il liberalismo: «noi non crediamo che il liberalismo sia sorto solo con un movimento di emancipazione dal privilegio in antagonismo con l’ancien régime, affermazione che dà un contenuto giuridico-economico alla nascita del liberalismo, che è invece sorto dalle lotte religiose e ha coinciso, nei suoi natali, con la dottrina della tolleranza. Se anche per i grandi partiti ha significato l’affermazione che la loro natura è da ricercare nel loro nascimento, è chiaro che la natura del PLI, ricercata nella nascita da dottrine umanistiche e religiose, è diversa che se vien ricercata in una nascita da lotte economiche e sociali» (17). Affermazione significativa perché da essa risulta confermato che Pepe concordasse con Croce nel concepire il liberalismo come una concezione generale, nella quale le considerazioni di ordine strettamente economico (difesa della proprietà, valorizzazione dell’iniziativa economica privata, libera concorrenza), non costituivano il momento prevalente. La distinzione crociana tra liberalismo e liberismo economico risultava così confermata ed esaltata.

Com’è noto, Benedetto Croce aveva definito “metapolitica” la concezione liberale (18). La “concezione metapolitica” del liberalismo, nel senso crociano, non era, appunto, né un programma politico, né una teoria economica. Era una premessa, un costume mentale, una sensibilità, una passione per la libertà, un metodo che applicava la dialettica all’interpretazione della storia. Inteso il liberalismo in questo modo, era evidente che tutti i liberali dovessero (come imperativo etico) operare concordemente tra loro quando si trattasse di resistere contro un regime dittatoriale, qual era il fascismo, per riconquistare la libertà. Invece, in tempi in cui le libere istituzioni rappresentative funzionassero normalmente, prevaleva la teoria sui partiti politici che lo stesso Croce aveva formulato molto tempo prima: i partiti, tutti i partiti, anche quelli che si definiscono liberali, sono strumenti per l’azione, creature storiche, che hanno un’esistenza limitata, come tutte le creazioni umane. Di conseguenza, nessun partito storico, in quanto tale, poteva avere il monopolio dell’idea liberale. Si poteva riconoscersi reciprocamente come liberali e appartenere a partiti diversi. Quando Croce, nel 1943, diede il proprio apporto determinante per la rifondazione del Partito liberale, provò a rivedere il proprio pensiero sui partiti, affermando che il PLI era, naturalmente, la casa di tutti i liberali. E’ di tutta evidenza, però, che non fu seguìto dalle persone intellettualmente più brillanti del suo campo. Proprio i suoi amici più stretti, quelli che erano stati al suo fianco negli anni della dittatura fascista, dopo aver valutato la natura politicamente molto composita del PLI, si rifiutarono di aderirvi. Adolfo Omodeo, Guido De Ruggiero, Francesco Flora, Luigi Russo, tutti nomi che hanno un peso nelle vicende crociane, preferirono iscriversi al Partito d’Azione. Perfino la figlia maggiore di Croce, Elena, fece lo stesso. Si potrebbe molto discutere se fecero bene a dar fiducia a quel partito; che, raccoglieva sì persone animate dalle migliori intenzioni, ma con visioni politiche molto diverse fra loro, e quindi ebbe vita stentata e breve. In ogni caso, quel che in questa sede conta, è che, dopo aver valutato le caratteristiche concrete del PLI, non vollero farne parte. Gabriele Pepe, per formazione culturale molto vicino a quella prima generazione di crociani, preferì seguire la strada indicata da Croce, ma nel PLI resistette soltanto tre anni.

5. Il Movimento liberale progressista.

Il problema politico cruciale, agli inizi del 1946, era come presentarsi alle elezioni dell’Assemblea Costituente, che si sarebbero svolte il 2 giugno 1946, contemporaneamente al Referendum istituzionale per la scelta fra monarchia o repubblica. La legge elettorale proporzionale avrebbe consentito al Partito liberale di presentarsi autonomamente, ma tutti vedevano che ciò avrebbe condannato in partenza il PLI ad un ruolo minoritario e marginale. Occorreva, quindi, promuovere un’alleanza elettorale, in modo da creare le condizioni affinché i liberali potessero avere maggior peso decisionale all’interno della Costituente.

Al riguardo, fu preoccupazione costante dei liberali di sinistra sbarrare la strada ad un possibile cartello con i qualunquisti. Il 27 dicembre del 1944 era uscito a Roma il primo numero del settimanale “L’Uomo qualunque”, che ebbe un successo crescente con il passare del tempo. La linea editoriale del periodico era volta a dar voce al malcontento popolare che, ovviamente, aveva fondati motivi di esistere nelle difficili condizioni economiche in cui si trovava l’Italia dopo la guerra perduta, quando bisognava portare avanti l’opera di ricostruzione post-bellica. Soltanto che i qualunquisti non se la prendevano tanto con il regime fascista che aveva portato il Paese al disastro, quanto con i governi antifascisti del CLN. Il livello della polemica si fece particolarmente aspro nei confronti del Governo Parri. Come già avevano fatto i fascisti nel primo dopoguerra, i qualunquisti mescolavano argomenti di destra ed argomenti di sinistra. Ad esempio, Guglielmo Giannini si diceva fautore della repubblica. Il problema era che “L’Uomo qualunque” si professava liberale e sollecitava i liberali del PLI ad un accordo politico.

Pepe scrisse un articolo chiarissimo, titolato “Al proprio posto”, che ebbe vasta eco perché pubblicato il 7 settembre 1945 da “Risorgimento Liberale”, quotidiano ufficiale del PLI: «Uno spirito veramente liberale, veramente democratico non ama l’uomo della massa; invano esso chiede che gli si spalanchino le porte del Partito liberale: il liberalismo e la democrazia, quella che potremmo dire (tanto per intenderci) mazziniana dal suo più nobile assertore, non apre le porte a chiunque, ma soltanto agli uomini liberi. Né è possibile essere uomini liberi se non partecipando con tutta l’anima, specie nei momenti calamitosi della sua storia, alla vita politica. Non è necessario avere una tessera: è necessario invece formarsi la coscienza del cittadino. […] Non crediate che l’unità nazionale consista nell’eliminazione dei partiti: è l’inganno dei regimi totalitari» (19).

Benedetto Croce accettò di incontrare Guglielmo Giannini, il quale, oltre tutto, era campano, nato a Pozzuoli. L’incontro ebbe luogo il 26 ottobre 1945. Nei propri “Taccuini di lavoro”, il filosofo annotò che Giannini gli aveva chiesto che il PLI accogliesse le centinaia di migliaia di lettori e seguaci de “L’Uomo qualunque”. Al che Croce rispose: «impossibile, perché noi siamo un organismo politico, e il suo partito è una folla» (20).

Qualcuno, all’interno del Partito liberale, doveva considerare ancora aperta la questione; lo dimostra il fatto che Manlio Brosio fosse indotto a prendere nuovamente posizione contro un accordo con i qualunquisti in un discorso tenuto a Teramo il 24 febbraio 1946. “Civiltà liberale” pubblicò il testo del discorso di Brosio nel numero del 7 marzo 1946, con il titolo: “Libertà dal qualunquismo” (21).

Dopo che il Segretario nazionale Cattani venne nominato Ministro dei Lavori pubblici nel primo Governo De Gasperi, dal dicembre 1945 all’aprile 1946 la Segreteria del Partito liberale fu retta dai tre vicesegretari (il cosiddetto triumvirato). Tra i tre, il più autorevole era teoricamente il professor Giovanni Cassandro, molto vicino a Croce e che poi, nel 1956, sarebbe stato eletto dal Parlamento giudice della Corte Costituzionale. Gli altri due membri della Segreteria erano il piemontese Anton Dante Coda e il romano Francesco Libonati. Nella realtà, la Segreteria era politicamente molto debole, cosicché il vero organo decisionale del partito era la Giunta esecutiva centrale. Fu assunta la decisione di tenere il Congresso Nazionale del PLI dal 29 aprile al 2 maggio 1946: considerato che le elezioni per la Costituente ed il Referendum istituzionale avrebbero avuto luogo il successivo 2 giugno, era evidente che il Congresso non serviva per discutere della linea politica e non avrebbe potuto far altro che ratificare formalmente decisioni adottate in precedenza.

Il 30 e il 31 marzo del 1946, su richiesta della tendenza di sinistra, si svolse a Roma un incontro con la Giunta esecutiva centrale del PLI: bisognava mettere le carte in tavola e chiarire cosa il partito intendesse fare. L’incontro andò peggio di quanto ci si aspettasse. Il 31 marzo il quotidiano del Partito diede notizia che il PLI si sarebbe presentato alle elezioni dell’Assemblea Costituente in un’alleanza elettorale denominata “Unione democratica nazionale”.

Di questa alleanza avrebbe fatto parte anche un altro partito del CLN, il Partito democratico del lavoro; gli esponenti più rappresentativi del PDL erano l’ex Presidente del Consiglio dei Ministri Ivanoe Bonomi, che, nel periodo prefascista, nel 1912, aveva fondato il Partito socialista riformista, e Meuccio Ruini, già deputato del Partito radicale. Dell’alleanza avrebbe fatto parte anche il movimento “Unione della Ricostruzione”, guidato da Francesco Saverio Nitti, anche lui ex Presidente del Consiglio dei Ministri ed in esilio durante il regime fascista.

In linea teorica, l’opposizione di sinistra avrebbe potuto vantare un successo: non si realizzò il grande cartello delle destre ed infatti, nelle elezioni del 2 giugno 1946, si presentarono, distintamente dall’Unione democratica nazionale, ben due lista di destra: il “Blocco nazionale della libertà”, dichiaratamente monarchico, ed il “Fronte dell’Uomo qualunque”.

In realtà, i liberali che la pensavano come Pepe volevano impegnarsi attivamente per far prevalere la soluzione repubblicana nel Referendum istituzionale e non si accontentavano della posizione ufficiale del PLI (che poi era la medesima di Croce): non prendere posizione come partito né a favore della monarchia né a favore della repubblica, lasciando libertà di voto agli iscritti ed ai simpatizzanti, nella volontà di accettare il responso del popolo italiano, qualunque fosse. I liberali che la pensavano come Pepe sapevano perfettamente che l’agnosticismo in materia istituzionale era poco più di un paravento, laddove nei fatti molti quadri dirigenti e molti militanti del PLI parteggiavano apertamente per la monarchia. Monarchici erano prevalentemente anche i dirigenti del Partito democratico del lavoro, che aveva il proprio radicamento elettorale soprattutto nel Meridione e in Sicilia.

Il 2 aprile 1946 i liberali repubblicani inviarono alla Segreteria del PLI la lettera detta “della scissione”, scritta da Franco Antonicelli (1902-1974).

La lettera fu pubblicata nel numero di “Civiltà Liberale” del 6 aprile 1946, con il titolo “Con l’uscita dal PLI la sinistra liberale indica la via del vero liberalismo”. Ne riportiamo i passi più significativi: «Voi [Nota nostra: ossia, i liberali del PLI] concepite la lotta contro le forze politiche di sinistra (verso le quali coltivate nel Paese un sentimento di terrore) come azione di pura resistenza; noi la concepiamo e vogliamo realizzare come sforzo — unico veramente fruttuoso — di condurle gradatamente all’accettazione dei più sani valori democratici, alla comprensione e al rispetto dell’individualità umana e della libera iniziativa. Voi avete svolto una politica che ha fatalmente condotto il Partito a una situazione di subordine rispetto alla Democrazia Cristiana; noi vogliamo affermare l’idea liberale nel suo concreto laicismo, nella sua netta opposizione ad ogni dogmatismo. Voi avete fiaccato nella vostra politica l’impulso ideale e l’efficiente pratica dell’antifascismo, combattendo con angusto spirito tutto ciò che voleva significare meditato svincolo dalle formule dello Stato prefascista, pervertendo a scopi di compromesso le ragioni dell’epurazione, scambiando la legalità con il legittimismo, l’ordine con la repressione, il mero tecnicismo con la doverosa competenza; accettando infine su larghe basi, e solo con qualche debole e verbale sconfessione, alleanze con partiti antidemocratici e di bassi riferimenti reazionari come il “Fronte dell’Uomo qualunque”. La vostra posizione conservatrice vi conduceva logicamente alla difesa dell’Istituto accentratore e autoritario della monarchia; la nostra al vagheggiamento di una repubblica, che vorremmo liberale e democratica» (22).

I liberali di sinistra fondarono il “Movimento liberale Progressista” (MLP), con sede nella redazione di “Civiltà Liberale”, a piazza Navona. Tra gli altri meriti del libro di Cosima Nassisi, c’è quello di non aver concentrato l’attenzione soltanto sui tre protagonisti più noti di quel Movimento: ossia, oltre ai già ricordati Gabriele Pepe e Franco Antonicelli, Antonio Calvi (1914-1978). Ci sono interessanti riferimenti al genovese Sergio Steve (1915-2006), cultore di studi economici e che poi sarebbe diventato professore di Scienza delle Finanze. Frequentemente citato è Giorgio Granata, che nel 1945 aveva diretto il settimanale “La Città libera”.

Proprio a partire dalla scissione dell’aprile del 1946, il ruolo di Pepe appare più defilato. Non per ragioni politiche, ma per problemi di salute. Già in una lettera ad Omodeo del 23 gennaio 1946, a proposito della propria attività nella Consulta Nazionale, Pepe aveva scritto: «avendo fatto in questi giorni la scoperta che per fare politica occorre prima di tutto una salute robusta, incomincio a ritrarmi nella esclusiva attività giornalistica» (23). Va da sé che, dopo le dimissioni dal PLI, Pepe si dimise dalla Consulta Nazionale, con lettera del 5 aprile 1946 indirizzata al Presidente, Carlo Sforza. Pepe era una persona perbene, in pace con la propria coscienza, l’antitesi vivente di un politicante in carriera.

Il progetto, caldeggiato da Pepe, di presentarsi alle elezioni del 2 giugno 1946 con un’unica lista laica repubblicana fallì: perché, da un lato, i dirigenti del Partito repubblicano storico, come Pacciardi e Giovanni Conti, non avevano piacere di mettere in discussione il proprio ruolo per fare posto a nuovi venuti; dall’altro lato, Ferruccio Parri sopravvalutava il consenso elettorale che si sarebbe potuto raccogliere intorno al proprio nome.

Alla fine, l’unica alleanza possibile fu quella tra il “Movimento della democrazia repubblicana” ed il “Movimento liberale progressista”. Insieme diedero vita alla “Concentrazione democratica repubblicana”. La lista presentata dalla Concentrazione nel Collegio unico nazionale era così formata. Ai primi due posti Ferruccio Parri ed Ugo La Malfa, del Movimento della Democrazia repubblicana. Ai posti numero tre e quattro Antonio Calvi e Franco Antonicelli, del Movimento liberale progressista. Ai posti numero cinque e sei, Guido De Ruggiero e Luigi Salvatorelli, in rappresentanza della cultura liberaldemocratica. Com’è noto, Salvatorelli, a partire dal dicembre 1944, aveva diretto il settimanale “La Nuova Europa” e Guido De Ruggiero era stato tra i più prestigiosi collaboratori di quel periodico.

Adolfo Omodeo aveva aderito al Movimento della democrazia repubblicana. Era logico aspettarsi che il suo nome desse ulteriore lustro alla lista nazionale della Concentrazione, ma il destino decise diversamente. Morì il 28 aprile 1946, all’età di 56 anni.

Ci fu pochissimo tempo per organizzare le liste territorialmente, cosicché le liste della Concentrazione democratica repubblicana non furono presenti in numerosi collegi elettorali circoscrizionali (si votò, complessivamente, in 31 collegi, mentre non fu possibile votare in quello che teoricamente comprendeva Trieste e la Venezia Giulia). Il risultato elettorale fu molto deludente. Soltanto 97.690 voti (pari allo 0,4 % del totale dei voti validi) in tutta Italia, con due seggi conquistati con i resti nel Collegio unico nazionale; che andarono, rispettivamente, a Parri e La Malfa, secondo l’ordine di lista.

Per fare delle comparazioni: il Partito d’Azione ottenne 334.784 voti (1,4 %); il Partito repubblicano (PRI) 1.003.007 voti (4,4 %); l’Unione democratica nazionale 1.560.638 voti (6,8 %). L’UDN ebbe 41 seggi complessivi, dei quali 30 ottenuti nei collegi circoscrizionali e 11 assegnati, in base ai resti, nel Collegio unico nazionale.

In seguito, Parri, La Malfa, Antonicelli, Calvi, aderirono al Partito repubblicano. In occasione del 19° Congresso nazionale del PRI, tenutosi nel gennaio del 1947, i primi tre furono eletti nella Direzione del partito, mentre Calvi fu incaricato di dirigere “La Voce repubblicana”.

Gabriele Pepe, invece, preferì non iscriversi, pur collaborando volentieri al quotidiano del PRI, così come del resto collaborava ad altri periodici.

6. La linearità di Brosio e l’ambiguità di Cattani.

Manlio Brosio non uscì dal PLI nell’aprile del 1946, come alcune ricostruzioni storiche erroneamente riportano. Difese, anzi, pubblicamente la «natura centrista» e non di destra dell’Unione democratica nazionale. Prendendosi per questo motivo le critiche di Antonio Calvi. Si veda, al riguardo, l’articolo “La commedia degli equivoci”, pubblicato in “Civiltà Liberale” del 20 aprile 1946 (24).

La posizione di Brosio, tuttavia, si era molto indebolita dopo la scissione della sinistra. Nel Congresso Nazionale del PLI (29 aprile – 2 maggio 1946) successe l’inimmaginabile: il Congresso sconfessò apertamente la linea di Croce riguardo al comportamento da tenere nel Referendum istituzionale. Si pretese che il Congresso fosse direttamente investito della questione. Furono presentate tre mozioni. La prima, che rispecchiava la linea ufficiale fino ad allora espressa dal PLI sull’argomento, fu firmata dallo stesso Croce, da Cassandro e da Cattani. Una mozione a favore della monarchia fu firmata, tra gli altri, da Edgardo Sogno, Manlio Lupinacci, Giuseppe Perrone-Capano. Una terza mozione a favore della repubblica fu firmata da Brosio ed altri. La mozione Croce, posta in votazione per prima, fu respinta con 508 voti contro 309. Messe poi in votazione le due mozioni alternative di Brosio e di Sogno ottennero, rispettivamente, 261 voti la prima e 412 voti la seconda, che quindi prevalse (25). Si cominciò allora a toccare con mano quanto fondate fossero le preoccupazioni espresse dagli scissionisti.

Il nome di Brosio non fu incluso nella lista dell’UDN per il Collegio unico nazionale; fatto strano, se appena si considera che Brosio era stato Segretario nazionale del PLI, per tre volte Ministro ed aveva una indubbia notorietà. Il fatto è che la dirigenza nazionale non si fidava più di lui. Lo si considerava con una gamba dentro il partito e con una gamba fuori. Accettò, comunque, di candidarsi in due collegi circoscrizionali del Piemonte, con il classico ruolo del portatore d’acqua, cioè di voti. Nel primo Collegio (Torino – Novara – Vercelli) arrivò terzo, con 13.279 voti di preferenza, ma fu eletto Bruno Villabruna, avendo Einaudi optato per il Collegio unico nazionale. Nel secondo Collegio (Cuneo – Alessandria – Asti), Brosio ebbe 4.443 voti e arrivò quinto nella graduatoria delle preferenze di lista. In quel collegio fu eletto Vittorio Badini Confalonieri, sempre in seguito all’opzione di Einaudi.

A scrutinio ultimato, Brosio si dimise dal Partito liberale (giugno 1946) e lasciò la politica, intraprendendo la carriera diplomatica.

Negli equilibri politici del Partito liberale contava molto un gruppo, legato anche da rapporti personali di amicizia, che si mantenne sempre coeso, in tutte le vicissitudini politiche. Le personalità più rappresentative erano Leone Cattani, Nicolò Carandini, Francesco Libonati, Mario Pannunzio. Quest’ultimo diresse “Risorgimento Liberale”, quotidiano ufficiale del partito, fino al dicembre 1947. Questo gruppo diceva di sé stesso di essere assertore di una linea di “nuovo liberalismo” (o neoliberalismo), alternativo al conservatorismo; con una linea politica che oggi, banalmente, verrebbe definita di centro-sinistra. Soltanto Carandini cercò effettivamente di evitare la scissione dell’aprile 1946. Gli altri non si sbracciarono più di tanto per cercare di trattenere i possibili scissionisti. Quasi fossero non troppo dispiaciuti di levarsi di torno intelligenze critiche, in alcuni casi (come quello di Pepe) belle intelligenze, che potevano dare fastidio e comunque fare ombra. Cattani, il quale presumeva di avere un’intelligenza politica superiore, comprendeva che il serbatoio elettorale del PLI potenzialmente più consistente stava a destra. La sua strategia, quindi, era di raccogliere quanti più consensi possibile anche di elettori dichiaratamente di destra, salvo poi governare questa base elettorale in modo da ricondurla su posizioni meno rozze e politicamente più affinate. Desta, comunque, non poco stupore che fosse proprio il “liberale nuovo” Cattani a presentare il 7 giugno 1946 un ricorso alla Corte di Cassazione, alla quale spettava di proclamare il risultato del Referendum costituzionale. Il ricorso sosteneva che l’espressione «maggioranza degli elettori votanti» dovesse interpretarsi, non nel senso di maggioranza dei voti validi (com’era logico), ma invece considerando tutti coloro che avevano preso parte al voto e quindi includendo nel computo pure le schede bianche e nulle. A tutti fu chiaro che quello era soltanto un espediente, studiato come estremo tentativo per salvare la monarchia. Il ricorso fu respinto, ma determinò non poche fibrillazioni a livello istituzionale in un momento delicatissimo della vita nazionale. E’ difficile dare a questo episodio un’interpretazione diversa dal fatto che Cattani cercò, nella circostanza, di rendersi benemerito agli occhi della base elettorale prevalentemente monarchica del PLI e, più in generale, al cospetto delle grandi masse popolari che nel Referendum avevano dato il loro sostegno alla causa della monarchia.

Sei mesi dopo le elezioni, il 17 gennaio 1947, i deputati liberali membri dell’Assemblea Costituente lasciarono il Gruppo parlamentare dell’Unione democratica nazionale e costituirono il Gruppo liberale. Il problema è che a questo aderirono anche deputati eletti nelle liste del “Blocco nazionale della libertà”, come Roberto Lucifero d’Aprigliano (1903-1993), eletto alla Costituente nel ventottesimo Collegio (Catanzaro – Cosenza – Reggio Calabria). Tale adesione a livello parlamentare si spiega perché nel mese di novembre del 1946 i monarchici del “Partito democratico italiano” (PDI) erano confluiti nel Partito liberale. Ottenuta la tessera liberale, Lucifero fece una carriera fulminante e nel quarto Congresso nazionale del PLI, tenutosi a Roma dal 30 novembre al 3 dicembre del 1947, fu eletto Segretario nazionale del partito, al posto del crociano Cassandro. La destra non si faceva guidare docilmente da Cattani e dai suoi amici, ma si metteva in proprio.

Quello fu il Congresso in cui Benedetto Croce, in ragione della sua età avanzata, ma anche in dissenso con il nuovo indirizzo politico che stava prevalendo nel partito, si dimise dalla carica di Presidente del partito. Doveva esserci molta amarezza nel vecchio filosofo, constatando come si fosse ridotto il partito al quale aveva dedicato cinque anni del proprio impegno, a partire dal 1943.

Stavolta furono Cattani, Carandini, Pannunzio, Libonati, ad assumere la denominazione di “sinistra liberale” e ad uscire dal PLI.

Nelle elezioni del 18 aprile 1948, per la prima Legislatura del Parlamento repubblicano, il Partito liberale si presentò con la denominazione di “Blocco nazionale”, in alleanza con il “Fronte dell’Uomo qualunque”. La deriva di destra non portò bene ai liberali, i quali nelle elezioni della Camera dei deputati ottennero soltanto 1.003.727 voti (3,82 %), ossia oltre 556 mila voti meno rispetto a quanti ne aveva avuti l’Unione democratica nazionale nel 1946. Però, tra i diciannove deputati eletti, questa volta c’era Guglielmo Giannini. Non c’erano più Pepe, Croce, o Brosio, a sbarrargli la strada.

Leone Cattani, che ora era un liberale indipendente, ossia senza partito, fece una dichiarazione di voto, riportata con grande evidenza dal quotidiano “Il Tempo” di Roma il 16 aprile 1948 e poi ripresa da altri organi di stampa. Cattani invitava a votare per la Democrazia Cristiana nelle elezioni del Senato, in funzione anticomunista. Proprio al Senato, infatti, a suo avviso il risultato era più incerto (26). Si intende che stiamo parlando dello stesso Cattani che, a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta del ventesimo secolo, si sarebbe riproposto come esponente di punta del Partito radicale.

7. La scelta socialista di Gabriele Pepe.

Il libro della Nassisi si ferma alle vicende del 1946 e, quindi, nulla ci dice dell’evoluzione del pensiero politico di Pepe. Salvo un accenno al fatto che «per le elezioni del 18 aprile 1948 si avvicinò all’Unione Socialista di Garosci» (27). Quando, nel 1947, il Partito d’Azione decise il proprio scioglimento, la maggioranza del partito aderì al Partito socialista (PSI), seguendo le indicazioni di Riccardo Lombardi, Vittorio Foa, Francesco De Martino. Così quegli azionisti si sarebbero ritrovati, nelle elezioni del 1948, nelle liste del “Fronte democratico popolare” (con l’effigie di Garibaldi), espressione dell’alleanza fra PSI e Partito comunista (PCI).

Non tutti gli azionisti, però, accettarono quella prospettiva. Quanti non vollero iscriversi al PSI continuarono ad avere una propria autonoma voce nel dibattito pubblico grazie al quotidiano “L’Italia socialista”, diretto da Aldo Garosci. Detto quotidiano era la continuazione, con mutata denominazione, del quotidiano ufficiale del Pd’Az., “L’Italia libera”. Anche la sede era rimasta immutata, in via Due Macelli, 47, a Roma. Tra i membri della redazione de “L’Italia socialista” vanno ricordati Paolo Vittorelli, Ernesto Rossi e Carlo Levi. Quest’ultimo illustrava il giornale con i suoi disegni.

Sul piano politico, “L’Italia socialista” esprimeva un punto di vista che, per semplificare, potremmo definire socialdemocratico. Soltanto che il partito di riferimento non era il Partito socialista dei lavoratori italiani (PSLI), fondato da Giuseppe Saragat nel gennaio del 1947. Nei confronti del quale, anzi, si nutriva una qualche diffidenza. Nel numero dell’8 febbraio 1948 si diede notizia della costituzione di un nuovo raggruppamento politico, l’Unione dei Socialisti, che comprendeva sia ex azionisti come Piero Calamandrei, Tristano Codignola, Aldo Garosci, Carlo Levi, eccetera, sia una personalità come Ignazio Silone. L’Unione dei socialisti non accettava la prospettiva della divisione del mondo in due blocchi militari contrapposti e, quanto all’assetto interno dell’Italia, esprimeva una forte critica nei confronti della Democrazia Cristiana.

Della collaborazione di Pepe a “L’Italia socialista” si ha conferma anche grazie ad una polemica, che ebbe una certa eco, fra lo stesso Pepe e Luigi Russo. Si vedano in proposito gli articoli: di Russo “La rivolta degli iloti” dell’1 febbraio 1948; di Pepe “Risposta di un ilota a Luigi Russo”, del successivo 8 febbraio; nuovamente di Russo “Dell’ilotismo eterno”, del 12 febbraio 1948 (28).

Per le elezioni del 1948, il PSLI di Saragat accettò di rinunciare al proprio simbolo per presentarsi insieme all’Unione dei socialisti e ad altre formazioni nelle liste denominate “Unità socialista”. Quest’intesa ebbe un discreto successo perché, nelle elezioni della Camera, le liste di “Unità socialista” ottennero 1.858.116 voti (7,7 %), conquistando 33 seggi.

E’ possibile che anche Gabriele Pepe fosse un elettore di “Unità socialista”, ma non ci risultano pubbliche dichiarazioni di voto al riguardo.

Le elezioni del 18 aprile 1948 ebbero una portata storica per la netta affermazione della Democrazia Cristiana che, sempre con riferimento alle elezioni della Camera, arrivò ad una percentuale di consensi pari al 48,51 % del totale dei voti validi, raccogliendo 12.740.042 voti. Questa vittoria avrebbe condizionato gli equilibri politici in Italia nei decenni successivi.

Altrettanto netta fu la sconfitta del Fronte democratico popolare che ebbe 8.136.637 voti (30,98 %). Il Fronte fu sicuramente danneggiato dalle vicende della Cecoslovacchia, che accentuarono la paura del comunismo nell’opinione pubblica italiana. I socialisti del PSI si resero conto che la scelta di presentarsi in liste comuni con il PCI era per loro disastrosa ed anche controproducente per l’intera Sinistra, in quanto i due partiti erano in grado di raccogliere più consensi quando si presentavano separatamente.

Fu allora che Pepe decise di aderire al Partito socialista. La notizia della sua adesione fu riportata dal quotidiano “Avanti!” alla fine del mese di agosto 1948. Va posto in evidenza come Pepe si muovesse in controtendenza: non correva verso il vincitore, ma aderiva ad un partito che proprio in quel periodo appariva in forte difficoltà.

Il quotidiano del PRI, “La Voce repubblicana”, ritenne opportuno attaccare personalmente Pepe per questa scelta, con toni sgradevoli.

Oliviero Zuccarini, repubblicano storico, ma minoranza critica all’interno del PRI, accettò di pubblicare una replica di Pepe nella rivista “La Critica Politica”: questa la genesi dell’articolo “Perché ho aderito al PSI e non al PRI”, davvero prezioso ai fini di una compiuta ricostruzione dei fatti.

I repubblicani, così come i socialdemocratici di Saragat, avevano accettato di allearsi con la Democrazia Cristiana, chiudendosi nella formula centrista. Tale alleanza strideva però con la storia più recente: «Quando i Gesuiti festeggiavano il 27 gennaio 1939 la caduta di Barcellona, i repubblicani italiani erano tra coloro che piangevano» (29). Secondo Pepe, il PRI prendeva posizione rispetto al «pericolo paventato del comunismo», che aveva poco fondamento perché il comunismo, nel senso sovietico, avrebbe potuto prendere il potere in Italia soltanto dopo una guerra; i repubblicani facevano finta di non vedere, invece, il pericolo «in atto del clericalismo».

L’atteggiamento da assumere nei confronti del Partito comunista italiano era così delineato da Pepe: «Il PCI va combattuto sul piano sul quale si combattono le lotte civili, sul piano parlamentare, giornalistico, sulle piazze dovunque si discuta, ma non si combatte con la Celere se non si vuol creare l’ambiente favorevole a esplosioni che tramutano la lotta civile in guerra civile» (30). Quale il possibile ruolo del Partito socialista?: «Aderendo al PSI ho inteso aderire a un partito che col patto d’azione [Nota nostra: con i comunisti e le altre forze di sinistra] difende la Repubblica italiana dal ritorno dei fascisti e dalla riscossa delle forze clericali che sempre hanno avvilito l’Italia; a un partito che, denunziando il Fronte, ha disincagliato la sua azione da quella del PCI ma che non farà mai, per il bene della Nazione, una politica anticomunista, rebus sic stantibus. Un uomo politico parla solo di cose attuali, effettuali: e la realtà odierna è che la lotta anticomunista è lotta contro laicismo e contro antifascismo» (31).

8. La protesta laica.

Prese di posizione di questo tipo hanno fatto di Pepe uno dei bersagli preferiti dell’opinione pubblica destrorsa ed ossessivamente anticomunista: veniva presentato come esempio dell’intellettuale ex liberale che ha tradito, per passare al nemico. In ciò accomunato a Luigi Russo (1892-1961), il quale però aveva temperamento di polemista e disponeva di una rivista, per merito suo affermatasi, “Belfagor”, dalle cui colonne rispondeva colpo su colpo alle critiche. Pepe e Russo, entrambi meridionali, entrambi accomunati dalla stima e dall’affetto nei confronti di Omodeo. Tutti e due hanno il merito di aver dato un contributo importante a consolidare la memoria di Omodeo ed a valorizzarne l’opera.

L’accostamento fra Pepe e Russo non sembra naturale soltanto a noi. Quando il 5 giugno 1949, a Venezia, l’allora Ministro dell’Interno Mario Scelba parlò contro il “culturame laico” di “quattro cialtroni peseudointellettuali”, suscitò nella stampa italiana più proteste di quanto si aspettasse. Ritenne opportuno, quindi, rilasciare un’intervista al giornale “Oggi” di Milano per precisare che con la parola “culturame” intendeva riferirsi a Luigi Russo e Gabriele Pepe. Due perfetti reprobi, secondo Scelba, che potevano essere schiaffeggiati metaforicamente senza che la più qualificata cultura italiana si risentisse più di tanto. Si noti che Pepe era particolarmente attivo nella “Associazione per la difesa della Scuola nazionale” (ADSN), fondata nel 1946 e a lui presieduta fino al 1958.

Nel quotidiano l'”Unità” del 19 giugno 1949 venne pubblicato l’articolo di Russo “Culturalume e culturame”, scritto in modo particolarmente brillante (32). Pepe, che non godeva della rete di protezione del PCI, si dovette accontentare di aggiungere un’Appendice, titolata “Antilaicismo e anticurialismo (Lettera aperta a Scelba)” al libro “La protesta laica” che proprio in quel periodo stava pubblicando, per i tipi dell’Editore Lacaita, a Manduria, in Puglia.

Piero Lacaita era un Editore militante, con l’aspirazione a diventare un Gobetti del Meridione d’Italia. Riconobbe il valore intellettuale di Pepe e, tra l’altro, pubblicò una collana di “Quaderni di protesta laica” diretti dal medesimo Pepe. Uscirono tre numeri, rispettivamente nel marzo 1949, nel settembre 1949, nel marzo 1950.

Nel terzo numero dei Quaderni, l’articolo di Pepe “Il Cristianesimo e l’educazione alla libertà” si apriva con queste considerazioni: «Chi è stato educato a certi ideali, a una vita associata, modellata secondo certi schemi, trova, nelle epoche di crisi, un grave problema davanti a sé: deve rinnegare i suoi antichi dei? o andarsene con essi? Deve tagliarsi le vene come uno stoico antico o rinchiudersi nell’isolamento e nell’adorazione del passato oppure adattarsi alla nuova realtà maturata a lui dappresso? Il dramma che noi crediamo della nostra età soltanto si è riproposto infinite volte nella storia; si è riproposto alle coscienze di pensatori, di sacerdoti, di educatori ogni volta che la vita associata è stata scossa da qualche crisi. Si ripropone oggi con maggiore intensità a noi in quanto la nostra età è scossa da una crisi più profonda, più vasta, più tragica delle precedenti» (33). Interrogativi che rivelano uno stato d’animo incline al pessimismo, ma tutte le speranze di costruire una società migliore venivano ricondotte alla questione dell’educazione da dare alle nuove generazioni, che per Pepe era cruciale: «Se il fine dell’educazione è di creare la coscienza della libertà e della socialità, di creare cioè la coscienza che la propria personalità è autocreatrice, autoliberatrice ma che essa non si conclude in sé ma si racchiude nella storia cioè nella società, sarà buona ogni educazione che a tale funzione adempirà. E che la religione cristiana sia stata e resti capace di accendere tale coscienza ce lo conferma la storia del medioevo con i santi, i martiri, gli apostoli che hanno trasformato la barbarie in civiltà, hanno cioè portato a luce, a migliore autocoscienza anime avvolte nella opacità della furia guerresca. Così come la storia della Spagna e dell’Italia dopo la controriforma ci dicono a quale miseria degradi un popolo una religione falsa per aver sostituito all’eterna forza civilizzatrice dell’interiorità la miseria di un’oggettivistica sorda educazione autoritaria» (34).

Il tema del pessimismo ci riconduce ad un Autore sempre caro a Pepe, Gaetano Mosca: «Al realismo va congiunto il pessimismo, che possiamo dire radicale, in quanto investe tutta la storia umana in tutti i tempi: non è che il Mosca ignori il bene, ma, come tutti gli storici e pensatori che guardano più allo Stato che alla società, vede un continuo prevalere di forze inferiori rispetto alle forze che artisti e scienziati ed eroi riescono a mettere in moto nella natura umana. Ma va decisamente affermato che realismo e pessimismo non servono a giustificare il male, bensì a conoscerlo per limitarlo, frenarlo, renderlo incapace di operare da solo nelle società politiche. Si potrebbe riassumere tutto il sistema politico del Mosca in questa proposizione: la scienza politica è l’arma contro ogni tirannide; la cultura politica quanto più è diffusa tanto più impedisce alle forze socialmente pericolose di soffocare la libertà» (35).

Il saggio su Mosca, dal quale è tratta la precedente citazione, è del 1950 e fu raccolto nel bel libro “Pane e terra nel Sud” (Parenti, 1954). In particolare, chi è meridionale non può leggere senza emozione un saggio come “La decadenza della Calabria dagli Svevi ai Borboni”, sempre risalente al 1950.

Questa, ovviamente, non è la sede per prendere in considerazione la produzione scientifica di Pepe, nella sua qualità di professore di Storia medievale e moderna nell’Università di Bari, né per i richiamare i suoi numerosi saggi di contenuto storico.

9. Conclusioni: le parole della politica.

La vicenda umana ed intellettuale di Gabriele Pepe stimola la riflessione. Si iscrisse al Partito socialista alla fine del 1920. Durante gli anni cupi della dittatura fascista credette di individuare una teoria politica di livello qualitativamente superiore nel liberalismo storicistico di Croce. Dopo tre anni intensi di vita politica all’interno del Partito liberale, il distacco, che dovette essere personalmente doloroso. Poi il ritorno al Partito socialista, come se nel periodo intermedio niente fosse successo. Anzi, come se l’esperienza nel PLI avesse dimostrato che: «il liberalismo sviluppato conseguenzialmente e storicisticamente porta al socialismo» (36). Affermazione perentoria, quasi si trattasse di una legge scientifica.

Certo, Pepe vedeva il socialismo come un movimento di emancipazione umana, di promozione della dignità umana, da questo punto di vista appartenente allo stesso indirizzo di pensiero proprio del cristianesimo, dell’umanesimo, del liberalismo. Questo è il nostro stesso modo di vedere, completamente diverso da quello dei teorici liberisti, i quali non sanno concepire il socialismo in altro modo che come una teoria economica sbagliata. «E’ importante capire che fascismo e nazismo erano dittature socialiste», ha scritto Ludwig von Mises nel suo libro “Socialismo” (37). E’ parzialmente vero, ma l’opposizione al fascismo ed al nazismo nasce dal rifiuto della dittatura in sé (tanto più quando assume le caratteristiche disumane di uno Stato compiutamente totalitario), non dalla critica ad un dato ordinamento economico.

Le vicende del socialismo italiano sono, tuttavia, almeno altrettanto complesse di quelle del liberalismo italiano; sicché il PSI certamente non si rivelò un porto sicuro per un intellettuale inquieto, che voleva soltanto operare a servizio dell’emancipazione umana, senza smanie personali di carriera politica. La scelta fatta da Gabriele Pepe nel 1948 diventa improponibile per chi abbia consapevolezza della storia successiva. Quarant’anni dopo, nel 1987, Norberto Bobbio sviluppava questa lucida analisi sul ruolo del Partito socialista nel sistema politico italiano: «Via via che il Partito comunista cresceva e diventava il maggior partito della sinistra, al Partito socialista non restavano che due vie per trovare una propria collocazione: o scavalcare il PCI a sinistra oppure spostarsi irreversibilmente verso il centro. Non è escluso che le abbia tentate tutte e due, la prima quando sembrava che il PCI andasse verso il centro e cercasse un’alleanza stabile con la DC, la seconda quando il PCI si è venuto proponendo come l’unico partito capace di guidare un governo alternativo. La leadership di Craxi ha rappresentato in tutti questi anni in maniera sempre più visibile la seconda strategia. […] Inutile aggiungere, però, che questo tipo di strategia, che è caratteristica in altri sistemi politici di partiti non socialisti, cioè di partiti liberali o radicali, accentua l’anomalia del nostro sistema» (38).

Trascorsi ulteriori sette anni da quando Bobbio aveva fatto quella valutazione sulla reale natura del PSI, la confusione delle lingue è arrivata al punto tale che molti dirigenti, quadri, iscritti, del Partito socialista hanno ritenuto di riconoscersi nella nuova formazione politica costituita da Silvio Berlusconi. Il quale si presentava come liberale, ma era completamente estraneo alla cultura politica del liberalismo; al più, Berlusconi può essere considerato la versione italiana di quelle forze del capitalismo internazionale che, negli anni Ottanta del ventesimo secolo, avevano salutato con favore e sostenuto le politiche economiche dei governi di Margaret Thatcher e di Ronald Reagan.

Benedetto Croce era contrarissimo alla logica delle destre e delle sinistre liberali: «tale distinzione è una infermità, che può condurre il partito alla scissione o alla dissoluzione». Era convinto che «nel partito liberale la destra e la sinistra» dovessero stare «sempre insieme, come fusione dei due momenti inscindibili della conservazione e del progresso: onde il partito liberale è veramente partito di centro, il solo partito di centro che sia logicamente concepibile. E chiamare immobilità la posizione di centro è una stoltezza, perché quel centro è centro di azione, e conserva e difende sempre ciò che saviamente è da conservare e difendere, e cangia ciò che è onesto e praticamente possibile cangiare, senza lasciare che altri entri a imporlo per fini suoi laterali o estranei e si dia così l’apparenza di zelatore della giustizia» (39).

Aveva ragione nel rivendicare che un liberale deve giudicare liberamente con la propria intelligenza, senza avere la smania di apparire “progressista” per partito preso e senza farsi condizionare dalle mode intellettuali passeggere. Nonostante l’autorevolezza che gli veniva riconosciuta, non riuscì a far prevalere il suo punto di vista all’interno del PLI.

Lo storico deve pur chiedersi perché, a dispetto della negazione crociana, la “destra liberale” e la “sinistra liberale” si siano manifestate ripetutamente, tanto da poter essere oggi studiate, non in astratto sulla base di premesse teoriche, ma nella loro concretezza di fatti storici. E’ un fatto storico, ad esempio, che la destra, in una sua versione estremizzata, abbia prevalso nettamente nel PLI nel periodo della Segreteria Lucifero, determinando l’allontanamento di tanti iscritti di antica e salda convinzione liberale. L’esperienza storica delle tante “sinistre liberali”, succedutesi nel corso del tempo, dimostra altresì che l’assunzione della denominazione di componente “di sinistra” il più delle volte si sia risolta in un passaggio tattico prima di cambiare partito.

Coloro che si posero il problema di come articolare il sistema politico italiano dopo la caduta del regime fascista, ereditarono dalla Storia alcune categorie ideali della politica, come appunto il liberalismo ed il socialismo, che sembravano ancora idonee a caratterizzare le culture politiche ed a fornire un preciso orientamento nell’azione. Viceversa, già negli anni Quaranta e Cinquanta del ventesimo secolo, si ebbero infinite prove del fatto che quelle categorie ideali, proprio perché troppo cariche di storia, non avevano più un significato univoco. Si poteva essere liberali in differenti e contrastanti modi, così come si poteva essere socialisti in differenti e contrastanti modi. Per non parlare degli infiniti possibili modi di essere democratici; ad esempio, i monarchici chiamarono uno dei loro primi partiti PDI, acronimo di Partito democratico italiano. Quanti allora tentarono sintesi ideali, come il Socialismo liberale teorizzato da Carlo Rosselli, o il Liberalsocialismo teorizzato da Guido Calogero, non tennero conto che mettere insieme due concetti ambigui perché polisensi, liberalismo e socialismo, non porta a maggiore chiarezza.

Non ci si deve meravigliare allora delle destre e sinistre liberali, né delle fratture, tentativi di riunificazione e periodiche nuove scissioni che hanno caratterizzato il variegato mondo socialista. La vera questione è che il linguaggio della politica non tiene più ed andrebbe aggiornato.

Senza la stupida presunzione di aprire vie “nuove”, perché la Storia non ammette soluzioni di continuità e ci si può definire politicamente in modo più preciso soltanto in termini di necessario aggiornamento di precedenti tradizioni politico-culturali.

La ridefinizione degli orizzonti ideali potrebbe concretamente partire, in campo liberale, da una separazione consensuale fra quanti sono più liberisti che liberali, e quanti sono più liberali che liberisti. Questi ultimi, che poi sono quelli che ci interessano, dovrebbero coltivare un’idea di bene comune della società umana di cui si è parte e quindi preoccuparsi del buon funzionamento dei poteri pubblici; liquidando le farneticazioni degli anarco-capitalisti. I liberali genuini dovrebbero riacquistare il senso della “libertà liberatrice”, secondo una felice formula di Mazzini che fu ripresa da Omodeo. “Libertà liberatrice” significa impegno sociale contro la povertà e l’ignoranza e affinché si promuovano opportunità di lavoro; sul piano delle politiche economiche e fiscali, significa puntare sull’equità, ribaltando le attuali politiche che consentono l’eccessivo arricchimento di pochi e l’impoverimento della restante popolazione; sul piano dei rapporti internazionali, significa volontà di cooperare con tutti i popoli su un piano di parità, simpatia e sostegno nei confronti dei popoli che lottano per emanciparsi da regimi dittatoriali e tirannici, impegno globale affinché la finanza internazionale sia soggetta a regole stringenti, riforma e rivitalizzazione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) per un efficace governo mondiale delle situazioni di crisi; rispetto all’Unione Europea, significa dare legittimazione democratica alle Istituzioni europee.

Un’idea liberale così ridefinita consentirebbe di rinsaldare il legame culturale, ma anche affettivo, con Autori come Piero Gobetti, Adolfo Omodeo, lo stesso Gabriele Pepe.

 

 

 

 

 

 

NOTE:

 

(1) Cosima Nassisi, “Gabriele Pepe e la Sinistra liberale. Responsabilità e civismo del giornalista”, Lecce, Pensa Multimedia Editore, 2012, p. 115.

(2) Adolfo Omodeo, “Il così detto Partito liberale e la crisi del novembre 1945”, ora in A. Omodeo, “Libertà e storia. Scritti e discorsi politici”, con introduzione di Alessandro Galante Garrone, Torino, Einaudi, 1960, p. 371.

(3) C. Nassisi, “Gabriele Pepe e la Sinistra liberale”, cit., p. 152.

(4) A. Omodeo, “Totalitarismo cattolico”, ora in “Libertà e storia. Scritti e discorsi politici”, cit., p. 332.

(5) A. Omodeo, “Lettere 1910-1946”, Torino, Einaudi, 1963, p. 631.

(6) Giosuè Musca, “Bibliografia degli scritti di Gabriele Pepe, 1927-1970, e profilo biografico”, in “Studi storici in onore di Gabriele Pepe”, Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bari, Bari, Dedalo Libri, 1969, p. 50.

(7) Gabriele Pepe, “Il Sillabo e la politica dei cattolici”, nuova edizione a cura di Giosuè Musca, Bari, Edizioni Dedalo, 1995, p. 141.

(8) Benedetto Croce, “Il disegno di una nuova Costituzione dello Stato italiano” in “Scritti e discorsi politici (1943-1947)”, volume secondo, seconda edizione, Bari, Laterza, 1973, p. 369.

(9) G. Pepe, “Il Sillabo e la politica dei cattolici”, cit., p. 15.

(10) G. Pepe, “Chiesa e politica”, in “Civiltà Liberale” del 28 marzo 1946, ora riportato in estratto in C. Nassisi, “Gabriele Pepe e la Sinistra liberale”, cit., p. 193.

(11) G. Pepe, “La religione della libertà”, in “Civiltà Liberale” del 13 aprile 1946, ora riportato in estratto in C. Nassisi, op. cit., pp. 14-15.

(12) B. Croce, “La Storia come pensiero e come azione”, Edizione Nazionale delle opere di Benedetto Croce, volume a cura di Maria Conforti con una nota al testo di Gennaro Sasso, Napoli, Bibliopolis, 2002, p. 24.

(13) B. Croce, “La Storia come pensiero e come azione”, cit., nota 5 alle pp. 318-319.

(14) B. Croce, op. cit., p. 213.

(15) B. Croce, op. cit., p. 245.

(16) G. Pepe, “Problemi della politica e dell’educazione in Francesco De Sanctis”, raccolto in G. Pepe, “Pane e terra nel Sud”, Firenze, Parenti, 1954, pp. 158-159.

(17) G. Pepe, “Amichevole risposta”, in “Civiltà Liberale” del 27 dicembre 1945, ora riportato in estratto in C. Nassisi, op. cit., p. 159.

(18) B. Croce, “La concezione liberale come concezione della vita”, in “Etica e politica”, edizione a cura di Giuseppe Galasso, Milano, Adelphi, 1994, p. 332.

(19) G. Pepe, “Al proprio posto” in “Risorgimento Liberale” del 7 settembre 1945, ora riportato in estratto in C. Nassisi, op. cit., p. 144.

(20) C. Nassisi, op. cit., p. 145.

(21) C. Nassisi, op. cit., p. 187.

(22) Franco Antonicelli, Antonio Calvi ed altri, “Con l’uscita dal PLI la sinistra liberale indica la via del vero liberalismo”, in “Civiltà Liberale” del 6 aprile 1946, ora riportato in estratto in C. Nassisi, op. cit., p. 199.

(23) C. Nassisi, op. cit., p. 152.

(24) C. Nassisi, op. cit., p. 208.

(25) Fabio Grassi Orsini e Gerardo Nicolosi, Voce “Partito liberale italiano. Dalla riorganizzazione del PLI al VI Congresso di Firenze (1943-1953)”, in “Dizionario del liberalismo italiano”, tomo I, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2011, p. 754.

(26) Sandro Setta, “Benedetto Croce e la Sinistra liberale nel carteggio con Leone Cattani (1947-1948)”, nella rivista “Storia Contemporanea”, anno XIX, n. 1 del febbraio 1988, nota a p. 142.

(27) C. Nassisi, op. cit., p. 15.

(28) Luigi Russo, “De vera religione. Notarelle e schermaglie, 1943-1948”, Torino, Einaudi, 1949, pp. 320-330.

(29) G. Pepe, “Perché ho aderito al PSI e non al PRI”, in “La Critica politica”, anno X, fascicolo 11 del novembre 1948, p. 393.

(30) G. Pepe, “Perché ho aderito al PSI e non al PRI”, cit., p. 394.

(31) G. Pepe, op. cit., p. 394.

(32) L. Russo, “Culturalume e culturame” in “Il dialogo dei popoli”, Firenze, Parenti, 1955, pp. 186-193.

(33) G. Pepe, “Il Cristianesimo e l’educazione alla libertà”, in “Quaderni di Protesta laica”, numero 3 del marzo 1950, Manduria, Lacaita, 1950, p. 3.

(34) G. Pepe, “Il Cristianesimo e l’educazione alla libertà”, cit., pp. 11-12.

(35) G. Pepe, “Gaetano Mosca”, raccolto in G. Pepe, “Pane e terra nel Sud”, cit., pp. 181-182.

(36) G. Pepe, “Gaetano Mosca”, cit., p. 207.

(37) Ludwig von Mises, “Socialismo. Analisi economica e sociologica”, titolo originale “Socialism. An Economic and Sociological Analysis”, traduzione italiana di Dario Antiseri, Milano, Rusconi, 1989, p. 626.

(38) Norberto Bobbio, “L’abito fa il monaco”, in “La questione socialista. Per una possibile reinvenzione della sinistra”, a cura di Vittorio Foa e Antonio Giolitti, Torino, Einaudi, 1987, p. 37.

(39) B. Croce, “Discorso di congedo dalla presidenza del Partito liberale italiano”, in “Scritti e discorsi politici (1943-1947)”, volume secondo, cit., pp. 457-458.

 

 

Livio Ghersi

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