Gabanelli: «Sogno un’inchiesta sulla Rai»

«Un’inchiesta fa sempre male e non si può ferire per sentito dire. È da arresto». Se lo dice Milena Gabanelli, ci si può fidare. Mercoledì l’autrice e conduttrice della trasmissione Report ha incontrato gli aspiranti giornalisti del master della Statale di Milano. Una chiacchierata informale, con uno dei volti più stimati della tv pubblica.

 

«Quanti siete? Ah, 28 potenziali disoccupati», dice appena entrata in sala. Una finta gaffe che smorza la tensione, ma anche un assaggio del tratto distintivo della Gabanelli: la concretezza. La stessa caratteristica delle inchieste di Report, il programma che ogni domenica conduce su Rai3 (ora è in vacanza, ma tornerà in autunno). E che finisce per assomigliarle. Concreta e schietta, appunto, anche quando non te l’aspetti. Milena Gabanelli si smarca subito dal ruolo di eroina che le è stato cucito addosso. Uno stereotipo di paladina della libera informazione in cui forse rischiava di rimanere incastrata. Un po’ stucchevole, certo, ma chi ormai non aveva finito per crederci?

Tra domande poco spassionate e risposte asciutte, ecco alcuni passaggi della mattinata trascorsa con la giornalista.

 

Come vengono scelti gli argomenti da trattare a Report?

«Partiamo dagli spunti più vari. Spesso c’è qualcosa di cui si parla tanto e non ci capiamo niente nemmeno noi. Prendete la storia dei derivati, ad esempio. Un giorno mi sono fatta spiegare di che si tratta da un signore che lavora in banca. Mi sembrava di aver capito tutto ma, mezz’ora dopo, vado a spiegarlo a una collega e mi accorgo di essere ignorante quanto prima. Insomma, i derivati, pensateci, sono una roba che più antitelevisiva non si può. Altre idee vengono poi dagli insiders. I migliori sono quelli che non hanno partecipato alla spartizione della torta: sono i più avvelenati, disposti a fare le notti per aiutarvi. Non sperate in un rigurgito di moralità».

 

Viste le premesse, è mai stato bloccato un servizio perché troppo scomodo?

«No, non è mai successo. Onestamente non ho l’impressione di lavorare in un’azienda che mi ama. Ma il mio rapporto diretto è con il direttore di rete, che ci ha sempre supportato».

 

E avete mai ricevuto minacce prima di andare in onda?

«Spesso ancora prima di vedere il servizio arrivano messaggi come: “Sappiamo dove siete stati e con chi avete parlato, ci difenderemo nelle sedi competenti”. Oppure ricevo telefonate da persone che per arrivare a me hanno fatto giri di placcaggio assurdi, passando dalla professoressa di mia figlia che è la cognata di qualcuno, eccetera, eccetera. Fino ad arrivare alle lettere del tipo “La sua faccia starebbe benissimo dentro la tazza del cesso”. Queste le butto via».

 

Come sono cambiate le cose da quando alla querela si preferisce la causa civile per risarcimento? Ha tempi più lunghi, dissangua in spese legali e non prevede che chi inizia la causa dimostri la propria ragione. Dev’essere complicato pararsi le spalle.

«Se mi querelano io stappo lo spumante! Purtroppo nove volte su dieci sono cause civili, dove è proprio difficile capire se ci sono elementi per iniziare un processo. Una persona qualunque può andare dal suo avvocato e dire che la Gabanelli il giorno prima lo ha guardato male, lui non c’ha dormito la notte, era nervoso e la mattina dopo ha dato uno schiaffo alla moglie, che ha chiesto il divorzio. Ed è tutta colpa della Gabanelli. È questo il vero cappio al collo della libertà di stampa perché, anche se hai un editore ricco come il nostro, in tribunale devi andarci tu e perdere tempo a difenderti anziché lavorare sul prodotto».

 

Cosa avrebbe voluto fare e non le è stato possibile, almeno finora?

«Un’inchiesta sulla Rai. La tentazione è forte, ma sarebbe come sputare nel piatto dove mangio. E io, quel piatto, non lo mangio con schifo, perché so che quello che facciamo è possibile solo lì. Ci penso spesso, questo sì, ma non si può chiedere l’impossibile dalle persone».

 

Quali sono i vantaggi e gli svantaggi di essere un giornalista d’inchiesta freelance, come i colleghi di Report?

«Di vantaggi neanche uno. Di svantaggi quanti ne volete. Non esistono garanzie, devi anticipare le spese da solo – e aspettare almeno un mese prima che te le paghino se ti ammali nessuno ti risarcisce e se chiude la testata ricominci da capo. Ma c’è anche l’umiliazione di vedere già sistemate delle persone che valgono meno di te. Però puoi decidere tu a che porte bussare e non vivi l’ambiente opprimente delle redazioni, che appiattisce. E’ una visione un po’ romantica, ecco».

 

Lei ha cominciato tardi a fare la giornalista. Ci racconta la sua storia?

«Il mio primo pezzo l’ho firmato a 27 anni. Che, se lo trovassi oggi, lo brucerei. Facevo le mie cose con una presunzione che oggi mi fa orrore. Ragazzi, cominciate dal basso, dove potete fare i vostri errori e non li vede nessuno. Così arriverete sicuri dove volete. Non rinunciate a mettervi alla prova in posti che vi fanno anche un po’ schifo. L’importante è non stare fermi, magari aspettando che ti aprano pure la porta».

 

Secondo Il Giornale, il Partito Democratico la vorrebbe come sindaco di Bologna. Che ne pensa dei giornalisti che scendono in politica?

«Se sentono che quello è il loro mestiere, fanno bene. Se lo fanno per altri motivi, penso tutto il male del mondo. L’importante è che chiudano con l’informazione».

 

E del giornalismo schierato?

«È la gente che lo percepisce così e con buone motivazioni. Se la politica nomina i direttori e i giornalisti vanno a moderare gli incontri nelle feste di partito, è difficile non essere assimilati alla testata in cui si lavora. Capita anche a me. Ma questo non fa bene, ci rende meno incisivi con il pubblico».

Claudia Campese

Giornalista Professionista dal 2011.

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