Fontanarossa, stop al campo rom Percorsi di integrazione, ma non per tutti

Il campo rom di Fontanarossa verrà chiuso entro novembre, o al massimo entro i primi giorni del mese successivo, comunque prima della riapertura dell’aeroporto, prevista per il 5 dicembre. In queste settimane si sta intensificando il lavoro delle associazioni che aderiscono al Presidio leggero, un servizio di prossimità di operatori pubblici e del privato sociale, per provare ad inserire in un percorso di integrazione il maggior numero di persone. «Ma entro fine mese lo svuotamento graduale verrà completato», annuncia Carlo Pennisi, assessore alle Politiche Sociali del Comune di Catania.

Attualmente nel campo vivono un centinaio di persone, per la maggior parte provenienti da Botosani, città del Nord della Romania. Ma solo una quarantina sono quelle autorizzate. I restanti sono «infiltrati» provenienti da altri campi della città o da fuori Catania. «Ultimamente – racconta Domenico Zito, operatore della Caritas – è arrivato anche un gruppo da Napoli che si è fermato per una settimana». Alla fine di ottobre sono stati murati gli ingressi degli edifici – palestra, spogliatoi e bagni – adiacenti al campo in terra battuta dove si trovano le roulotte, oggi rimaste in 28 a fronte delle quaranta della scorsa primavera. Nell’agosto scorso eravamo entrati nel campo raccontando le pessime condizioni in cui vivono i rom, tra cui molti bambini. «Le strutture sono state murate – spiega Zito –  perché l’Asp ha dichiarato quei luoghi inagibili dal punto di vista igienico sanitario».

Che fine faranno le persone che attualmente vivono nel campo di Fontanarossa? «Da qualche mese – sottolinea Zito – stiamo cercando di trovare strategie per inserire alcune famiglie in un percorso di integrazione tramite le borse lavoro. Ma non tutti troveranno appartamenti o lavoro, perché molti fanno abbondante uso di alcool e non sono in grado di lavorare». Ma lo sforzo di volontari e operatori sta dando i primi risultati. Da mercoledì tre donne lavoreranno in una casa di riposo, tre uomini verranno avviati nel campo dell’edilizia, e altri due in aziende florovivaistiche. Tutti usufruiranno della borsa lavoro, un fondo speciale che attualmente dispone di ventimila euro messi a disposizione dalla Caritas e dal Comune. «Riceveranno 570 euro al mese per sei mesi – sottolinea Zito – con cui potranno pagarsi un affitto. Si tratta di tirocini formativi che in passato hanno dato buoni esiti. Ne abbiamo attivati sei in altri campi e tutti i soggetti coinvolti, in seguito, sono rimasti a lavorare nelle aziende che li hanno accolti».

La Caritas spera così di dare un futuro al massimo a dieci famiglie. Gli altri invece torneranno in strada. «Si tratta di coloro che hanno rifiutato ogni tipo di progettualità che gli è stata proposta – continua Zito – molti probabilmente andranno al campo Turati di via Kennedy perché è da lì che sono venuti». Il campo della playa è quello che desta più preoccupazione. «La polizia ci ha detto di evitare di frequentare il campo perché c’erano indagini in corso – spiega Zito – da alcune informative delle forze dell’ordine sembrerebbe che si gestiscano attività delinquenziali». Per queste ragioni gli operatori della Caritas non vi entrano da due anni e il campo rimane inaccessibile anche per le altre associazioni. Se per Fontanarossa l’assessore Pennisi nega che ci sarà un vero e proprio sgombero, per il campo della playa ammette che «servirà l’intervento delle forze dell’ordine con cui ci stiamo confrontando, perché la situazione non è affrontabile con strumenti di inclusione sociale».

Non si conoscono tuttavia i tempi di un eventuale intervento di forza. Pennisi annuncia invece che dopo Fontanarossa, «toccherà alle baraccopoli di Corso dei Martiri della Libertà», dove vivono 160 persone. Ma chiede alla città di collaborare attivamente. «Le casse comunali sono a secco e il bilancio tarda ad essere approvato – conclude l’assessore – molti volontari sono esausti, se i cittadini non ci vengono in aiuto contribuendo alla raccolta fondi tramite il conto corrente aperto dal Centro servizi per il volontariato etneo, non sappiamo come fare».

Salvo Catalano

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