Figli, figliastri e la differenza in un cappello.

Qualche tempo fa mi sono ritrovata in questura per accompagnare un’amica giapponese che aveva bisogno del permesso di soggiorno al fine di studiare qui in Italia per un anno.
Già mi aspettavo che l’accoglienza non sarebbe esattamente stata quella che si riserva ad un ospite d’onore, a causa delle tante parole che si spendono per la chiusura delle barriere agli immigrati.
Con molta sorpresa ho dovuto presto correggere le mie aspettative, salvo poi rivederle nuovamente e con molta più velocità non appena inoltrata la richiesta.
Non sapendo dove dovessimo fare domanda, entrammo dall’ingresso principale. Un poliziotto dell’ufficio immigrazione ci accolse molto gentilmente e non finiva più di scusarsi per non avere la possibilità di farci evitare la fila d’attesa, davvero con un’espressione dolente (più o meno sincera) sul volto.

In realtà non avrei mai preteso un simile privilegio; essere in compagnia di un italiano o provenire da un paese che esercita fascino, ammirazione, o semplicemente più ricco del nostro, non possono essere discriminanti che fanno scattare clientelismi e favoritismi che, vuoi o non vuoi, sottolineano comunque una persistente idea di diversità.
In più, il tempo di attesa a cui avrebbero voluto sottrarci, si dimostrò parecchio utile per fare qualche considerazione a proposito di quell’insieme di tematiche che vengono fatte rientrare sotto l’etichetta di “immigrazione”, termine-calderone dalla natura estremamente eterogenea.
L’ufficio per la richiesta-rilascio dei permessi è indipendente dall’edificio principale, e in più la sala di attesa è troppo piccola per accogliere tutti coloro che solitamente devono avanzare la pratica. Non rimaneva quindi che aspettare fuori. Ricordo ancora che era l’inizio della primavera e la temperatura e il sole che batteva rendevano persino piacevole la sosta all’aria aperta. Ma non voglio nemmeno immaginare cosa succeda a coloro che si presentano in questura per un visto nei mesi di Gennaio o Febbraio, in compagnia del rigido inverno ragusano, sotto un misero e precario tettuccio, né tantomeno a Luglio o Agosto con le temperature record a cui l’estate ha abituato i siciliani.
Quasi arrivate allo sportello, un uomo, credo si trattasse di un musulmano, ebbe lo straordinario coraggio (forse dettato dall’ignorare il trattamento che avrebbe ricevuto) di chiedere ad un poliziotto delle informazioni. L’italiano diede una prima risposta con aria indifferente e di superiorità; poi alla stessa domanda dello straniero, probabilmente dovuta alla sua conoscenza stentata della nostra lingua, il poliziotto urlò, invitando l’uomo, piuttosto maleducatamente, di andare via. È possibile che l’episodio sia nato da un malinteso puramente linguistico, ma spesso questo è il primo passo verso scontri più duri, e in ogni situazione è comunque un bene non scordare mai una piccola dose di buona educazione e civile convivenza.

Il gradino successivo del nostro iter vide la mia amica sottoposta a quel passaggio obbligato per ogni immigrato che volesse scegliere l’Italia come Paese di accoglienza, più o meno temporaneo; una misura di sicurezza, a dire il vero, forse troppo eccessiva. Le furono chieste le impronte digitali di ogni dito della mano e come a lei a tutti coloro che superano il primo scoglio di questo percorso e che si trovano poi ai piedi del loro personale Calvario.
Non ero presente al momento del rilascio delle impronte, ma la mia amica riapparve dalla stanza adibita a tale procedura con un’espressione di soddisfazione, tenendo per le mani, già pulite, un cappellino della polizia, quasi a rappresentare la supplica di perdono da parte degli uomini in divisa per la fastidiosa richiesta e per il prezioso tempo perso.
Perché non capita spesso di vedere un immigrato con regolare permesso di soggiorno fare sfoggio di un cappellino all’ultimo grido della polizia? Forse nei paesi da cui provengono non viene ancora capita l’eleganza della moda italiana o forse sembra loro incoerente esibire lo stemma delle autorità di un Paese straniero seppure questo li abbia ammessi nel proprio territorio. Questa seconda ipotesi è confermata dal fatto che la mia amica non abbia mai indossato il copricapo regalatole, ma è molto più plausibile che i poliziotti in altri casi non si sentano il dovere di chiedere perdono per i trattamenti riservati a chi viene da noi a guadagnare un pezzo di pane (o un piatto di cous cous o una ciotola di riso).

È difficile decidere chi fare entrare e chi rimpatriare, chi ha questo delicato compito dovrebbe portare a termine un percorso formativo che non lasci da parte un sorso di umanità. Allo stato attuale molto più spesso l’arte dell’accoglienza si dimentica o si vuole dimenticare di proposito e le barriere non fanno che diventare barricate e trincee.

chiarazappala

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