Fenomenologia del copia ed incolla

Quando scoprii il portentoso strumento del copia e incolla erano gli anni Novanta ed eravamo ancora lontani dal concetto di condivisione e creative commons. Pensai che avremmo lavorato meglio e velocemente e, volendo, avremmo persino imparato di più anche da quel magico click. Beh, non avevo fatto i conti con le incognite del futuro. Per esempio, che mi sarei imbattuta nelle tesi di laurea copiate. E mi riferisco al nuovo copiato; quello comodo e digitale. Quello che mi costringe, a volte per ore ed ore, a verificare stringhe di frasi e intere pagine di tesi di laurea su Google.

Il copiato è la più triste dimensione del nostro fallimento intellettuale e creativo, un furto del sapere e del tempo altrui, un’infantile regressione ai banchi delle elementari e i copioni sono sempre esistiti. Solo che il copiato spinto più raramente arriva da fonte cartacea, più difficile da scovare e noiosa da trascrivere. Così per i docenti scatta la caccia alle frasi lunghe tre o trenta righe, copiate da articoli scientifici o di giornale, da abstract di tesi, da riflessioni d’autore o da pietosi contenuti da blog di terza categoria. Contenuti che vengono copiati e incollati tra di loro per poi apparire un elaborato unico. Firmato senza scrupoli dall’autore. Autore (lo studente) che nella stragrande maggioranza dei casi ignora persino il vero significato di quanto plagiato e che, spesso, non si accorge di essere pure precipitato fuori tema. E’ pure vero che non tutti gli argomenti di ricerca possono trovare un preciso riscontro sul web. Molti nascono per essere frutto di percorsi originali e di ricerche sul campo, che difficilmente trovano riscontro nel già scritto. Ma è proprio per questo che gli irriducibili del copia e incolla vengono riconosciuti a distanza. I copioni parlano un linguaggio che non è il loro e si imbattono in temi lontani mille miglia dalla loro portata e dal buon senso. A quel punto ci tocca fare le solite, umilianti – più per il docente, in verità – ramanzine, che raramente vengono accolte con delle scuse, che spesso vengono affrontate con disarmante ingenuità o addirittura, più colpevolmente, con degli sguardi di spocchiosa sufficienza (“e perché non si può fare?”).

Di chi è la colpa? Ecco, a questa domanda non so rispondere con sicurezza. Spesso è solo il docente che segue passo dopo passo il tesista ad accorgersi delle magagne dei provetti copisti sin dall’inizio. L’obiettivo più urgente diventa poi evitare l’approdo in commissione di laurea di un testo plagiato. E diventa tutto più complicato quando ci si accorge del danno solo a fine lavoro. Diventa drammatico, persino, quando non ci si accorge di nulla per noncuranza o colpevole distrazione. Prendiamocela con l’insicurezza di una età biologica che non risparmia nessuno, prendiamocela con una generazione abituata al web tanto da confonderlo con la realtà stessa, allo stesso modo di come i nostri padri si guardavano stupiti per esclamare: “E’ tutto vero, l’ha detto la tv”. Prendiamocela con la scuola, che non prepara adeguatamente gli studenti alla scrittura, all’analisi ed alla ricerca degna di questo nome, commissionando surreali gite lampo su Wikipedia. Ma quelle frasi prefabbricate di cui ci si appropria, quei saggi brevi costati ad altri mesi di lavoro, fatica e denaro, quelli gridano vendetta. La “gratificazione istantanea” dei nostri giorni, invece, se ne frega. Quella invece rimbecillisce gli studenti, e in certi casi, ahimè, pure giornalisti e docenti di ogni ordine e grado. Copiano anche loro, a volte, con conseguenze più gravi. La colpa? Non saprei, davvero. Ma signori copioni, state alla larga dai luoghi del sapere e dalle scritture in genere. E, soprattutto, da me.

*Giornalista e docente a contratto di Giornalismo e nuovi media.

Rosa Maria Di Natale

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