Femminicidio, storia e significato di un termine «Non è solo un fatto ideologico delle femministe»

«Per comprenderlo, bisogna mettersi in testa che è un fenomeno che è sempre esistito e che ha a che fare con le differenze di genere. Adesso è solo perché è di moda che il termine femminicidio passa sulla bocca di pseudo-esperti. La questione è una: è la disparità di potere tra uomo e donna». Pina Ferraro è un’esperta di questioni di genere. Nel 2000 a Catania ha fondato il centro antiviolenza Thamaia, che accoglie le donne vittime di maltrattamenti. Nel 2013 è stata la consulente di parte della famiglia Noce nel corso del processo contro Loris Gagliano, il ventisettenne che il 27 dicembre 2011 ha ucciso con dieci coltellate la sua ex fidanzata Stefania Noce e il nonno di lei, il settantunenne Paolo Miano. Al termine di quel procedimento, il giudice monocratico del tribunale di Caltagirone aveva emesso contro Gagliano una sentenza di colpevolezza e lo aveva condannato all’ergastolo. Pena, quest’ultima, confermata ieri dalla Corte d’Appello di Catania. Nelle motivazioni della decisione del 2013, il magistrato aveva scritto: «È possibile delineare Gagliano come un soggetto che riconosce in Stefania non una compagna di vita, con autonome capacità di scelta […], bensì una sorta di stampella della propria personalità». Per questo motivo, scriveva il magistrato, «l’omicidio di Stefania, dettato essenzialmente dal sentimento di vendetta per la decisione della ragazza (di lasciarlo, ndr), si inquadra perfettamente nel cosiddetto femminicidio». Per la prima volta in Italia un giudice legittimava il termine in una sentenza. Un anno dopo, nelle aule di piazza Vergail procuratore Giulio Toscano, nel corso del processo di secondo grado per lo stesso reato, definiva «il femminicidio un brutto neologismo di carattere sociologico». «Il pm può dire quello che vuole, ha scelto una strada — risponde Ferraro — Ma bisogna ricordare che c’è una sentenza, che deve essere tenuta come punto fermo e che è da quella che bisogna partire».

«Innanzitutto chiariamo un punto: la battaglia per il femminicidio non è solo un fatto ideologico delle femministe, per quanto sia grazie al loro interessamento che le politiche di genere sono diventate argomento della conferenza mondiale di Pechino nel 1995», comincia Pina Ferraro che dell’argomento si occupa dal 1999. Da quando, cioè, ha preso parte a una ricerca pilota dell’università etnea: «All’epoca eravamo davvero avanti, la nostra città era una delle otto a essere stata selezionata per effettuare questi studi all’avanguardia in Italia». Da allora, però, più che passi in avanti ne sono stati fatti indietro: «Non abbiamo guadagnato nulla, anzi. Si continua a credere che la violenza di genere sia un problema delle donne». Invece, sottolinea la consulente, è «una questione universale». Tanto che già nel 1993 «l’Onu parlava della violenza contro le donne perpetrata per il fatto che queste ultime erano donne. Non è una cosa di questo o quell’altro Stato — precisa Ferraro — Sono le Nazioni unite». Non tutti gli aspetti del fenomeno, però, sono ugualmente tenuti in considerazione: «C’è una parte della violenza di genere che è socialmente accettata. La chiamiamo gelosia, lo definiamo troppo amore, ma è una spirale». Che inizia, di solito, «con piccoli maltrattamenti, con lui che ti banalizza o ti insulta. Quando le donne ne parlano di solito il consiglio è di minimizzare, di non dare importanza. Questo non fa altro che giustificare gli uomini, che rafforzare in loro la percezione che possono fare di noi tutto quello che vogliono».

«La battaglia per il termine femminicidio serve a specificare che ci sono contesti in cui la donna viene annientata in quanto tale. Non è femminicidio quando una donna viene uccisa in una strage, nel corso di una rapina o da un pirata della strada: è femminicidio quando un uomo la ammazza perché lei è sua, perché lei non lo accontenta. E vale anche se lei è una prostituta e lui un cliente», continua Pina Ferraro. Ma l’accusa più comune che si rivolge al neologismo più discusso del momento è che sia discriminatorio: «Non c’è nessuna intenzione di ghettizzare le donne: quel che si deve fare è solo rispettare un fenomeno complesso, vecchio come il mondo, che include in sé i futili motivi dell’assassinio. Tu la uccidi non perché lei ti abbia ferito fisicamente o chissà che altro, la uccidi perché lei vuole smettere di essere una proprietà». E se anche il governo nazionale ha avviato l’iter burocratico per inserire il reato di femminicidio nel codice penale, «non si può dire che il testo presentato sia un buon testo: l’approccio è securitario, si tratta il fenomeno come se fosse un problema di ordine pubblico, un’emergenza da affrontare. Ma non è niente di simile, è una questione strutturale della società e la sua risoluzione passa attraverso la formazione specialistica di medici, avvocati, assistenti sociali, membri delle forze dell’ordine». L’unico modo per aiutare le donne, secondo Ferraro, è quello di «fare rete tra enti e amministrazioni, collegare in maniera snella il pronto soccorso col centro antiviolenza, con le forze dell’ordine, con gli assistenti sociali e tutto il resto». Perché «se tutti questi attori non comunicano, se tutte le associazioni continuano a guardare il loro orticello, le donne continuano a essere abbandonate a se stesse».

Adesso che la sentenza di Appello per il caso Noce è stata emessa e, tra novanta giorni, si attende che il giudice depositi le motivazioni della sua decisione, gli occhi sono puntati sui documenti che verranno consegnati. «Se non dovesse essere usata la parola femminicidio, sarebbe una sconfitta per tutti. È attraverso le sentenze e i giudizi che si distrugge il senso di impunità e si dà percezione di sicurezza – conclude Ferraro – Se mancasse una nuova legittimazione del reato di femminicidio, avrebbero perso tutte le donne che non denunceranno, che continueranno a pensare che devono sbrigarsela da sole, che insisteranno a credere che la violenza domestica sia un fatto privato. Morendo ogni giorno, lentamente, nelle loro case».

Luisa Santangelo

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