«Fava, antieroe contro la mafia»

Dal Fava uomo al drammaturgo, dallo scrittore al giornalista che aveva un solo scopo, quello di raccontare la realtà, il come e il perché delle cose. La figura del giornalista siciliano, i suoi ultimi anni di vita, il suo sacrificio a lungo misconosciuto da una parte della città, sono raccontati dal giornalista, scrittore e autore televisivo Massimo Gamba nel suo libro dal titolo “Il Siciliano” e dal sottotitolo “Giuseppe Fava antieroe contro la mafia”. Probabilmente il primo libro che racconta Fava e la sua città attraverso lo sguardo di un osservatore esterno. Il volume è stato presentato venerdì 7 alla libreria Feltrinelli.

E tale sembra essere ancora la rabbia, la commozione, la nostalgia che la memoria di Giuseppe Fava suscita in molti, che i discorsi sulla sua vita, sulla lotta contro la mafia e per la libertà di espressione hanno finito a tratti per allontanare i riflettori dal libro di Gamba. Sul quale, peraltro, i commenti sono tutti positivi. È stata sottolineata la sua abilità di ricostruire e interpretare gli eventi che hanno segnato l’attività del giornalista, la sua morte e il processo per l’omicidio, protrattosi per quasi quindici anni prima di giungere a una verità, seppur parziale; la vastità della documentazione utilizzata per ripercorrere il percorso artistico e giornalistico di Fava; e, infine, la capacità di cogliere il lato umano di Fava, la figura di un uomo estremamente attaccato alla vita.

L’autore, Massimo Gamba, è un giornalista che si definisce «non esperto di mafia» e spinto alla stesura del libro dalla voglia di risarcire un diritto di cronaca violato. L’autore osserva che gli è bastato mettere in fila i fatti emersi dall’analisi di documenti e dalle numerose interviste raccolte nel volume per ottenere il «ritratto di una Catania sconvolgente, laboratorio dell’Italia che oggi sta venendo fuori, l’Italia delle cricche». E, tuttavia, continua, «faccio fatica a credere, come alcuni mi dicono, che la Catania di oggi sia peggiore di quella degli anni ‘80».

Adriana Laudani, legale di parte civile durante il processo – assieme a Fabio Tita a Vincenzo Scudieri –, parla delle forze mafiose denunciate da Fava come di un sistema ad orologeria infiltrato nella politica e nell’economia. Un sistema svelato da Fava, che ha pagato con la vita il suo amore per la verità. La Laudani, poi, legge alcune parole di Fava, risalenti agli anni in cui, a proposito del terrorismo, qualcuno pensava di rispondere con il silenzio stampa: «il negare la conoscenza, il dire solo ciò che è bene che si dica è il vero dramma dell’Italia di oggi».

Secondo il giornalista Nino Milazzo, che è stato anche amico di Fava, l’attività di quest’ultimo segna il passaggio da una «Catania del silenzio» in cui prevaleva il convincimento che la mafia non esistesse, a una «Catania della responsabilità e della consapevolezza». Anche se, continua Milazzo, «a tutt’oggi molti preferiscono continuare a chiudere gli occhi. Come quelli che pensano che ricordare Fava sia un gesto di parte, di sinistra, addirittura estremista. Mentre qui si sta parlando di valori che trascendono la politica». E, ancora, Milazzo si sofferma sul «dovere catartico» che Catania possiede nei confronti della memoria di Fava e della necessità di un “processo” storico e civile, oltre a quello giudiziario.  «Il libro di Gamba – continua Milazzo – fornisce gli strumenti per raggiungere tali finalità».

Ma Milazzo, con emozione, si lascia andare a qualche ricordo: e ricostruisce l’occasione in cui spronò l’amico Pippo a partecipare alla trasmissione di Enzo Biagi, durante la quale «disse cose molto coraggiose. Mi sono chiesto – ricorda Milazzo – se l’aver invitato Fava a quella trasmissione potesse essere stata la causa della sua uccisione, avvenuta sette giorni dopo. Ma fu Claudio a rassicurarmi, dicendomi che la sentenza era già stata scritta». Nell’intervento di Milazzo c’è però spazio anche per la leggerezza, con il ricordo di Fava che amava giocare a calcio «ed era disposto ad accettare critiche feroci ai suoi lavori, ma non sopportava che qualcuno lo considerasse un calciatore scarso».

Riccardo Orioles si sofferma sul fascino esercitato da Fava sui giovani che riescono a comprenderne lo spirito senza mai averlo conosciuto, e sulle sue ineguagliabili doti di giornalista. E osserva poi che «non era Fava a firmare le inchieste di mafia che comparivano sui Siciliani. Quelle inchieste le firmavamo io, Gambino, o altri colleghi, nessuno dei quali è stato ammazzato. Noi riuscivamo a illuminare un pezzo, a mostrare una porzione di verità che veniva subito riassorbita. Fava era di più. Lui sapeva descrivere come nessun altro al mondo, puntava la luce sulla normalità. Uno così non si poteva lasciare vivere. E la normalità è quella di cui oggi non ci si occupa». Un esempio di questo modo di raccontare? Quando parla di Palma di Montechiaro, Fava parla anche dei politici che si contendano i finanziamenti e intanto paralizzano opere pubbliche essenziali. Ma il suo sguardo punta altrove: per parlare di un paese in cui non ci sono le fognature e i liquami si scaricano sulle strade «il Direttore descrive i bambini che giocano in quelle strade, con sciami di mosche negli occhi. E lì si vede che il direttore si incazza veramente per ciò che succede a quei bambini».

Elena Fava, figlia del giornalista, elogia il lavoro di ricerca compiuto dall’autore, che ha impiegato circa due anni a leggere tutta l’opera di Fava e indagare su documenti, fatti e persone che hanno incrociato il suo cammino. E si rammarica per la scarsa valorizzazione del suo teatro, componente fondamentale della sua produzione e serbatoio delle sue riflessioni. «Non è vero che mio padre non ha scritto molto. Ci sono ben dodici testi teatrali che non sono mai stati messi in scena. In tutti questi anni non è mai stato fatto nulla. Non si parla più del teatro di Fava, eppure lo spettatore che andava a vedere i suoi spettacoli coglieva il messaggio e se lo portava a casa. Il patrimonio culturale deve essere conosciuto da tutti e Fava è un uomo che appartiene a tutti».

Molti anche gli interventi del pubblico: Giovanni Caruso, allora fotografo per il Giornale del sud, ricorda il ruolo preponderante svolto dalle immagini nel quotidiano guidato da Fava. Mario Bonica, scrittore, sottolinea il lato ironico della città, che Fava sapeva ben rappresentare. Piero Isgrò, giornalista Rai, ricorda invece un Giuseppe Fava «stanco, sfiduciato, solo» e evidenzia come «il male che prima era reattivo, usava la violenza, adesso si è solo democratizzato». Ma è Orioles a chiudere la serata, rivolgendo all’autore, il romano Massimo Gamba, un eloquente «benvenuto tra “I Siciliani”».

Paola Roccella

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