Farmacia, «la prova dell’inquinamento c’è» L’ultima udienza prima della sentenza

«Le difese sostengono che le accuse sono inconsistenti per la mancanza di prove di contaminazione primaria. In realtà di tutto ciò abbiamo prove, soprattutto documentali». Giuseppe Sturiale, il pubblico ministero che rappresenta l’accusa nel processo sulle presunte gestioni irregolari dei laboratori nell’ex facoltà di Farmacia, è netto: la certezza che gli illeciti siano stati compiuti si legge nelle numerosissime lettere scambiate tra dipartimenti, dirigenti e amministrazione universitaria. E, aggiunge, l’intero corpo docenti e i dipendenti hanno testimoniato già nel 2005 – ben prima che partissero le indagini, avviate nel 2008 – che la situazione era giunta a un punto di non ritorno. È il 20 giugno, tra i corridoi del dipartimento di Scienze farmaceutiche si sussurrano i nomi delle prime tre presunte vittime: la ricercatrice Maria Concetta Sarvà, il dottorando Emanuele Patanè (autore del memoriale che denuncia la gestione dei laboratori) e la dottoranda Agata Annino, morta appena diciassette giorni prima. Al termine di una riunione plenaria – dalla quale sono però esclusi gli studenti – i vertici del dipartimento stilano una lettera da inviare al rettore dell’epoca, Ferdinando Latteri. «Una moltitudine di persone l’ha sottoscritta», ricorda Sturiale. Nel documento i firmatari sostengono di non potersi più assumere la responsabilità di quanto avveniva nella struttura.

Il pm ha esposto brevemente le ultime repliche a lui riservate nell’ultima udienza del procedimento prima della sentenza, attesa per il 17 ottobre. Non si può sostenere che non ci fossero prove, prosegue Sturiale, «se tutto ciò è stato firmato anche dagli imputati». Gravità, percezione del pericolo, durata nel tempo: tutte queste condizioni avvalorano l’ipotesi di reato più grave, quella di disastro colposo. «C’è la consapevolezza della situazione», che è stata anche sottovalutata, sottolinea il magistrato.

Altro elemento costantemente portato in rilievo dalle difese è la perizia effettuata, nel 2009, dai tecnici scelti dal Tribunale. «L’analisi è una foto del 2009», afferma l’accusa, ma nulla dice quale fosse la situazione precedente. E, prosegue, «lo stato dei luoghi è stato mutato» a causa dei lavori di rifacimento dell’impianto fognario. Altra variabile imprevedibile è anche la confluenza delle numerose sostanze utilizzate nei laboratori che avrebbero potuto produrre miscele poi non riscontrate nelle analisi perché non ricercate.

Condividono le considerazioni dell’accusa anche le parti civili, rappresentate nell’udienza da Pierfrancesco Iannello, legale della Cgil. Oltre al sindacato sono coinvolte anche le presunte vittime e le loro famiglie, l’associazione Cittadinanza attiva e il Codacons, assieme all’Università di Catania (che riveste anche il ruolo di responsabile civile). «Al di là delle suggestioni che vogliono che questo processo sia fondato sul niente, sulle sabbie mobili, noi crediamo che ci siano dati certi», afferma Iannello. Grazie alla «intensissima produzione di atti ufficiali» anche la responsabilità di tutti e otto gli imputati è certa: «Possiamo ricostruire il quadro delle posizioni di garanzia».

Ma il tasto sul quale il legale ha battuto maggiormente è quello delle presunte vittime, «l’angosciosa presenza alle porte di quest’aula delle decine di morti e malati continuamente esorcizzati dalle difese». «Entro certi limiti – premette – questa presenza assume un significato probatorio». Quello secondo cui «finché non troviamo la prova dell’inquinamento questo non esiste» è definito dall’avvocato come un «sofisma». «Tutti sapevano che vi era un’incipiente serie di persone» che avevano problemi di salute. E gli imputati sono «persone che sul piano teorico, umano e scientifico» sono capaci di identificare il problema. Ma a pesare sulla vicenda, secondo Iannello, è la decisione «verticista» di operare in silenzio. «Ci colpisce che l’Università, luogo di ricerca e una delle più grosse aziende del territorio, non abbia sentito la necessità di impiegare i propri mezzi» per capire quali fossero le condizioni di salute di dipendenti e studenti. «Questo rappresenta la prova che l’essere umano ha una mancanza di razionalità che lascia attoniti».

La compassione, intesa come condivisione del dolore, per l’avvocato della Cgil non c’è stata. «Ma sicuramente c’è stata la condivisione tra tutti gli imputati del dubbio. Ma questo – conclude – non è bastato».

Carmen Valisano

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